Vent’anni fa aveva inizio l’invasione dell’Iraq capeggiata dagli Stati Uniti. Da allora il Paese è stato lacerato dalla guerra, dal settarismo religioso e dal fondamentalismo. Per mettere fine all’orrore e alla barbarie dell’imperialismo, dobbiamo lottare per la rivoluzione e per rovesciare il capitalismo.
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Il 19 marzo 2003 gli imperialisti americani e britannici lanciavano la loro avventura omicida per “liberare il popolo iracheno”, ma a distanza di 20 anni non si sono ancora sopite le fiamme che incendiano la culla della civiltà, oggi cimitero di più di un milione di persone, sottoposto alle devastazioni dell’imperialismo occidentale.
Sin dall’ignobile ritirata del 2011, gli imperialisti hanno cercato di mantenere le distanze dal disastro che hanno creato in Iraq. Ma mentre oggi i “campioni del mondo libero” pontificano sulle “guerre per la pace” e la “democrazia ucraina”, la guerra d’Iraq e la sua eredità li smascherano come la forza più ipocrita e controrivoluzionaria esistente sul pianeta.
L’imperialismo e la guerra
Il crollo dell’URSS lasciava agli USA la posizione di unica superpotenza rimasta al mondo. Gli imperialisti statunitensi erano convinti che la loro incontrastata superiorità economica e militare avrebbe consentito loro di imporre il proprio predominio in ogni angolo del mondo.
Mentre la Russia sprofondava nel caos, la classe dominante degli USA cominciò subito a inserirsi nelle ex sfere d’influenza sovietiche in giro per il mondo. Nella maggior parte dei casi ciò fu possibile attraverso le “normali” modalità imperialiste commerciali e “diplomatiche”, ovviamente in termini favorevoli agli Stati Uniti.
Dietro le quinte c’era però anche una formidabile macchina militare pronta a persuadere verso più miti consigli qualsiasi governo che non fosse stato disposto a mettersi in riga davanti agli interessi di Washington. Quelli che si rifiutavano di obbedire, come il regime di Saddam Hussein in Iraq, diventavano bersagli per l’intervento militare.
Nel 1998, con l’approvazione dell’Iraq Liberation Act, la strategia del “cambio di regime” entrò nella linea politica ufficiale degli USA verso l’Iraq. Senza dubbio un ruolo centrale nel ragionamento che portò a questa scelta lo giocò il fatto che l’Iraq fosse quinto nella classifica dei più grandi depositi di petrolio.
Inoltre, la rivoluzione del 1979 aveva sottratto agli imperialisti USA il loro regime fantoccio in Iran. Temendo l’instabilità della monarchia saudita, gli USA erano alla ricerca di un nuovo agente che potesse “stabilizzare la regione” secondo modalità favorevoli ai loro interessi.
Con l’ascesa al potere dei repubblicani nel 2000 sotto il presidente George W. Bush, si misero in moto gli ingranaggi della macchina bellica americana. Ora tutto quello che serviva era un pretesto.
Molti esponenti del governo di Bush avevano peraltro interessi diretti in Iraq. Bush, come suo padre, era stato un petroliere. La segretaria di Stato Condoleza Rice faceva parte del consiglio d’amministrazione di Chevron. E il vicepresidente Dick Cheney, già amministratore delegato della compagnia energetica Halliburton, aveva ricevuto una consistente buonuscita di $20 milioni dalla stessa azienda che, guarda caso, aveva appena avuto i contratti per la “ricostruzione” dell’Iraq dopo l’invasione.
Per gli imperialisti britannici la guerra era un modo per tenere in piedi la loro influenza sullo scacchiere mondiale, altrimenti in rapido calo. Con il capitalismo britannico alle prese con un declino di lungo periodo , avendo perduto il suo ex impero, la Gran Bretagna non poteva essere più di un ligio maggiordomo alle dipendenze dell’imperialismo americano.
Menzogne e propaganda
Con gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 negli USA, gli imperialisti avevano trovato la scusa che stavano aspettando. Come prima cosa non persero tempo a invadere l’Afghanistan, rovesciando il regime talebano. A dicembre 2001 avevano già instaurato un regime fantoccio filo-USA.
Tronfi per una “vittoria” all’apparenza così repentina in Afghanistan, gli imperialisti hanno quindi volto la loro attenzione all’obiettivo successivo: la detronizzazione di Saddam Hussein in Iraq.
Washington mise insieme la “coalizione dei volenterosi”: un’alleanza di imperialisti occidentali a guida USA, della quale l’inglese Tony Blair era fin troppo entusiasta di far parte. Da parte degli imperialisti partì una incessante campagna propagandistica a giustificazione dell’intervento militare.
Sembrava non ci fosse scusa migliore della cosiddetta “guerra al terrore” per compattare le rispettive popolazioni dietro il conflitto. Che Al Qaeda non avesse nessuna base in Iraq fu liquidato come un dettaglio di cui era meglio non parlare affatto.
All’inizio si tentò di collegare Saddam ad Al Qaeda e all’11 settembre. Quando fu chiaro che si trattava di una menzogna, Bush e Blair passarono a strombazzare il pericolo di “armi di distruzione di massa” e dell’“imminente minaccia al mondo libero” portata dall’Iraq.
Per stare sul sicuro, sostenevano che una rapida operazione militare sarebbe stata sufficiente per instaurare una florida democrazia, portando pace e stabilità all’intera regione.
In tutto questo Blair fu una risorsa particolarmente utile, visto come ammantò tutta la torbida faccenda con i suoi famosi “falsi dossier”, le prediche sulla “politica estera etica” e una buona dose di moralismo cristiano.
Per un po’ l’America e la Gran Bretagna cercarono di ottenere una risoluzione dal consiglio di sicurezza dell’ONU, al fine di poter mettere l’idea della guerra sotto una luce più positiva nei rispettivi paesi, dandole una vena di “legalità”. Quando però questo si rivelò impossibile, gli imperialisti semplicemente andarono avanti con i loro piani d’invasione, sprezzanti del resto.
Fu questa la base da cui alcuni, persino sedicenti “di sinistra”, si opposero alla guerra. Ma la legalità non avrebbe neanche minimamente cambiato il carattere imperialista reazionario del conflitto.
L’ONU non è nient’altro che una banda di ladroni. Il suo scopo non è difendere la “pace mondiale” o la “legge internazionale” ma negoziare tra gli interessi di gruppi nazionali di capitalisti in competizione tra loro, i cui interessi antagonistici – la corsa al profitto e la divisione del mondo – fanno sì che ciò che può essere negoziato si riduca solo a questioni secondarie.
Oggi tutti questi pretesti sono stati mascherati come le menzogne che effettivamente furono.
Come dimostra l’Iraq, gli imperialisti non fanno la guerra per la “libertà” o la “democrazia”, ma per difendere il dominio dei loro monopoli nazionali e la loro inesauribile sete di profitto, che ha bisogno della conquista di fonti di materie prime, mercati e sfere d’influenza.
“Missione compiuta!”
L’invasione cominciò il 19 marzo 2003 con una campagna “shock and awe” (colpisci e terrorizza) da parte degli imperialisti, che in poche settimane decimò le forze di Saddam. Il 9 aprile cadeva Baghdad, e il 30 aprile la fase dell’invasione veniva considerata completata.
L’indomani, 1° maggio, George Bush dichiarava “missione compiuta” dal ponte di una portaerei. Le operazioni di combattimento in Iraq sarebbero dovute terminare.
L’esercito USA mise rapidamente in piedi l’“Autorità provvisoria della coalizione” (CPA nella sigla inglese), un’amministrazione coloniale dipendente dalle forze di occupazione. Ciò diede all’imperialismo americano mano libera per spalancare il paese agli investimenti, compresa la privatizzazione delle sue vaste riserve di petrolio.
Il CPA, adottando l’arcinota politica del divide et impera, procedette quindi a imporre all’Iraq una “democrazia” cucita in fretta sulla base di divisioni etniche e religiose nuovamente rinfocolate.
Il tallone di ferro dell’imperialismo americano non perse tempo a distruggere la già zoppicante macchina statale irachena. Ciò che restava dell’ex esercito iracheno fu liquidato per decreto e a chiunque avesse avuto la tessera del partito Ba’ath di Saddam era proibito avere un lavoro nel governo. Oltre 100 000 persone si ritrovarono disoccupate dall’oggi al domani.
Barbarie e guerra civile
Un’operazione di furto con scasso così arrogante come questa non poteva restare senza conseguenze.
Lo Stato fantoccio americano era del tutto isolato dalla popolazione e contrastato da un’insurrezione armata.
Al contempo, con l’ex Stato di Saddam in macerie (e i suoi 100 000 soldati disoccupati e arrabbiati), si aprì un enorme vuoto di potere che portò alla disgregazione del paese tra milizie armate in lotta fra loro.
Come già in Vietnam, l’America non si trovò davanti un esercito permanente che avrebbe potuto sbaragliare in campo aperto. Al contrario, si ritrovò a che fare con incursioni a sorpresa su piccola scala, a seguito dei quali gli esecutori potevano facilmente confondersi tra una popolazione che nutriva vaste simpatie per loro.
Un po’ come cercare di combattere uno sciame di vespe con una mitragliatrice, la risposta “alleata” – con tanto di bombardamenti indiscriminati, torture e fosforo bianco – causò enormi perdite civili, devastando ancor più l’Iraq e creando un terreno fertile per la reazione.
Ne scaturì che gli USA si sarebbero ritrovati impantanati in una guerra di guerriglia per gli otto anni successivi.
Per mantenere il potere, la coalizione si mantenne in equilibrio tra divisioni religiose e nazionali, ma ciò finì inevitabilmente per esacerbare le tensioni, che nel 2006 sfociarono in una guerra civile settaria.
Al contempo, con la rimozione dell’esercito di Saddam dal potere, andò in frantumi l’intero equilibrio di potere generale: l’Arabia Saudita e i paesi del Golfo cominciarono a finanziare i gruppi fondamentalisti islamici sunniti in Iraq, come contrappeso rispetto alla crescente influenza iraniana.
La ritirata americana del 2011 lasciò in Iraq un campo di battaglia tra reazionari islamici e gli intrighi delle potenze regionali.
C’è dell’ironia nel fatto che Al Qaeda non aveva alcun appoggio in Iraq prima della guerra, ma non ebbe problemi a fiorire tra le macerie della guerra, evolvendosi poi nel mostruoso califfato dell’ISIS.
I nodi degli USA stavano tornando al pettine ancora una volta. Al Qaeda era a sua volta nata dai mujahidin, finanziati e addestrati dall’imperialismo USA per combattere i sovietici in Afghanistan. Ora la storia si stava ripetendo.
Per cercare di rimediare ai propri sbagli, la coalizione a guida USA intervenne nuovamente tra il 2014 e il 2020. Anche se alla fine il territorio controllato dall’ISIS è stato smembrato, il contagio stavolta si era esteso nella vicina Siria .
Le conseguenze
La storia si è incaricata di trarre il bilancio della guerra in Iraq.
In totale, si stima che la guerra sia costata agli USA $1,9 migliaia di miliardi di dollari, e le vite di 4614 soldati.
A sua volta l’Iraq lascia oltre un milione di morti, 9,2 milioni di sfollati, un tasso di povertà al 25%, disoccupazione al 14%, e gran parte delle sue infrastrutture in macerie.
A governare sulle macerie c’è un fantoccio al servizio dell’America e dell’Iran, due dei regimi più controrivoluzionari sulla faccia del pianeta.
Gli imperialisti hanno fatto un macello e l’hanno chiamato “democrazia”, pertanto non sorprende nessuno che in Iraq ci sia nostalgia persino per la brutale dittatura di Saddam Hussein, che nei suoi 25 anni di governo ha fatto 250 000 morti, una cifra relativamente inferiore rispetto a quelli causati dall’intervento imperialista.
In Iraq – così come in Afghanistan –, nel tentativo di spezzare una potenza insubordinata in modo che potesse fungere da avvertimento per tutti, l’America e la Gran Bretagna si sono cacciati con entrambi i piedi in una trappola. Lungi dallo stabilire un regime sano, hanno aperto il vaso di Pandora della barbarie, e si sono invischiati in una guerra che non era possibile vincere.
Una rapina così dispendiosa e protratta, realizzata con intenti sfacciatamente predatori, ha avuto conseguenze politiche di lunga durata.
Quando scoppiò la guerra civile siriana, l’imperialismo occidentale non si trovava in condizione di poter intervenire come avrebbe fatto in passato, vista l’immensa rifiuto verso la guerra che si era sviluppato sul fronte interno. Le bugie venivano smascherate e i cadaveri si accumulavano: diminuiva così la percentuale di opinione pubblica favorevole alla guerra in Iraq. Fu l’inizio della fine per Bush e il New Labour, entrambi i quali si tennero ben aggrappati al potere perché non avevano altre alternative.
La cosa più importante è che erano stati rivelati i veri limiti dell’egemonia americana. Pur rimanendo un colosso senza pari sulla scena mondiale, gli USA sono messi costantemente a dura prova e incapaci di imporre la loro volontà dappertutto allo stesso momento.
In tutto il mondo, e soprattutto in Ucraina, si trovano ad avere a che fare con potenze regionali imbaldanzite, capaci di bilanciarsi tra i molteplici poli del nuovo ordine mondiale dilaniato dalle crisi.
Benché costretta ad arretrare, l’America non ha tratto alcuna lezione da tutto questo. Oggi, per perseguire il suo obiettivo immediato di indebolire l’imperialismo russo, sta alimentando i semi della barbarie e della reazione. I paramilitari fascisti che sta armando e addestrando, per esempio, prima o poi torneranno a perseguitarla, come avvenne con i mujahidin.
Per la Gran Bretagna questa è l’ultima di una sequela di umiliazioni, a cominciare dalla crisi di Suez nel 1956, che riflette il suo lungo declino da impero globale all’insignificanza.
L’Iraq è stato l’ultimo serio intervento dell’imperialismo britannico. In Ucraina sta giocando il ruolo di un chihuahua che abbaia forsennato, perlopiù ignorato da Washington e dalle altre principali potenze.
A sua volta l’esercito britannico si è indebolito da allora e, con ranghi svuotati e un equipaggiamento obsoleto, è stato definito una “forza vuota” in “un pessimo stato”. Secondo un generale americano, “non è più in grado di difendere il Regno Unito e i suoi alleati”.
Movimenti di massa
La classe lavoratrice non è stata a guardare mentre tutto ciò avveniva sotto i suoi occhi. I preparativi per la guerra provocarono una delle più ampie mobilitazioni di tutti i tempi, con 55 milioni di persone in piazza da ogni parte del mondo.
La vasta estensione di questo movimento fu però anche una fonte di debolezza. In Gran Bretagna, la Stop the War Coalition mise assieme attivisti sindacali e socialisti con liberali e gruppi religiosi, tutti sotto uno slogan vuoto pensato per non spaventare nessuno di loro: “pace”.
Ma non ci può essere pace sulla base del capitalismo. Senza un movimento di massa della classe lavoratrice che disarmi la classe dominante, la quale ha un interesse materiale in queste carneficine cicliche, gli imperialisti non faranno altro che chiudere le finestre, isolarsi dal rumore che arriva dalle manifestazioni e continuare la loro politica di rapina.
Anni più tardi abbiamo visto lo scoppio delle “primavere arabe” del 2011. In queste mobilitazioni si è intravista la possibilità per le masse del Medio Oriente di prendere il potere nelle proprie mani.
Fu un movimento rivoluzionario che, superando le divisioni settarie, attraversò il mondo arabo come un incendio, rovesciando numerosi dittatori, e strabordando anche in Iraq.
Prive di un partito rivoluzionario con un chiaro programma socialista, però, alla fine queste insurrezioni sono state deragliate.
Tuttavia, è inevitabile che negli anni a venire si presenteranno altri movimenti simili, e su un piano ancora più elevato, via via che si approfondirà la crisi del capitalismo.
Rivoluzione socialista
La guerra d’Iraq passerà alla storia come una brutale lezione sull’ipocrisia e il cinismo dell’imperialismo.
Mentre strillano sulla “difesa della democrazia” e il rispetto della “sovranità nazionale”, in realtà si preoccupano soltanto dei loro spudorati interessi, senza farsi scrupoli riguardo i mezzi per raggiungerli.
Effettuare un “cambio di regime” non è compito delle truppe americane o britanniche, ma delle masse lavoratrici e dei poveri. Per i lavoratori dell’Occidente: il nostro nemico principale si trova nel nostro paese!
Solo strappando il potere dalle mani dei parassiti responsabili di questa orribile crociata sarà possibile conseguire una pace vera e duratura.
Anziché creare l’inferno in terra, come ha fatto l’imperialismo in tutto il mondo, la rivoluzione socialista spianerà la strada al paradiso in terra, espropriando le ingenti risorse che vengono dilapidate sotto il capitalismo e mettendole al servizio degli interessi dell’umanità.
Solo su questa base sarà possibile sanare le divisioni e le ferite dell’Iraq e seppellire una volta per tutte l’eredità dell’imperialismo.
Cronologia
- 1991-1992: Gli USA lanciano la Prima Guerra del Golfo contro l’Iraq.
- 31 ottobre 1998: Gli USA appprovano l’Iraq Liberation Act, adottando il cambio di regime come loro politica ufficiale.
- 16-19 dicembre 1998: Gli USA e la Gran Bretagna bombardano l’Iraq, ma sospendono la guerra totale.
- 20 gennaio 2001: Sale al potere George Bush Jr, che accelera i preparativi per la guerra.
- 11 settembre 2001: Terroristi sauditi attaccano gli USA. Bush dichiara la “guerra al terrore”.
- 7 ottobre 2001: Gli USA e la Gran Bretagna invadono l’Afghanistan; i talebani crollano in due settimane.
- Gennaio 2002: Bush dichiara l’Iraq parte di un “asse del male”.
- 15 febbraio 2003: Proteste contro la guerra in 600 città del mondo, record di partecipazione a Londra con 1,5-2 milioni di persone.
- 19 marzo 2003: La coalizione a guida USA avvia l’invasione dell’Iraq.
- 10 aprile 2003: Baghdad cade davanti all’avanzata americana.
- 1 maggio 2003: Il presidente Bush dichiara “missione compiuta”.
- 23 maggio 2003: L’Autorità provvisoria della coalizione scioglie l’esercito iracheno e lo Stato ba’athista.
- 31 marzo 2004: Comincia la prima battaglia di Fallujah dopo un’imboscata contro mercenari americani. Nuova fase dell’insurrezione.
- 18 aprile 2004: Pubblicate le immagini delle atrocità USA nella prigione di Abu Ghraib.
- 17 ottobre 2004: Fondazione di Al Qaeda in Iraq.
- 31 marzo 2005: La Commissione dell’intelligence sull’Iraq raggiunge la conclusione che le “informazioni” raccolte dagli USA sulle armi di distruzione di massa prima della guerra erano false.
- 22 febbraio 2006: L’attacco alla moschea di al-Askari scatena una guerra civile settaria.
- 10 gennaio 2007: Il presidente Bush annuncia una “aumento del contingente” di più di 20 000 soldati
- 28 maggio 2009: Gli ultimi soldati britannici lasciano l’Iraq.
- 15 dicembre 2011: Gli ultimi soldati americani lasciano l’Iraq.
- Giugno 2014: L’ISIS prende il controllo di Mosul e Tikrit. Guerra civile tra il governo e l’ISIS. Gli USA intervengono nuovamente.
- Dicembre 2017: Il governo iracheno dichiara la vittoria sull’ISIS.