La giornata del 15 dicembre, è stata una prova di forza fra il movimento in ascesa delle masse peruviane contro il golpe, che avevano proclamato uno sciopero nazionale, e il governo usurpatore di Dina Boluarte, che ha dichiarato uno stato d’emergenza per annientare il movimento per mezzo della repressione.
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L’estensione dello stato d’emergenza da tre regioni all’intero territorio nazionale, da parte del governo, aveva l’obiettivo di usare l’esercito per riprendere il controllo della situazione e distruggere il movimento. Tale misura dimostra non la forza del governo ma la sua debolezza, il suo bisogno di ricorrere a misure disperate per far fronte a una situazione generalizzata di manifestazioni di massa, blocchi stradali e occupazione di installazioni strategiche da parte di operai, contadini e studenti.
Uno sciopero generale imponente
Il bilancio complessivo è che, a dispetto della brutale repressione, della demonizzazione mediatica (i manifestanti vengono definiti “teppisti”, “violenti” e “terroristi”) e delle minacce dell’esercito e della polizia, lo sciopero nazionale è stato un successo e le mobilitazioni hanno avuto portata di massa.
Il movimento è tornato a bloccare le strade sgomberate dall’esercito. A decine di migliaia sono scesi in piazza a Cajamarca, Tacna, Cusco, Ayacucho e nei paesi e città in tutto il Paese. “Qui e là, nessuna paura”: questo lo slogan che è risuonato dappertutto.
A Lima, nonostante una presenza di polizia gigantesca e sproporzionata, la manifestazione è stata ingente, radunando operai, attivisti sindacali, giovani studenti dalle varie università, insieme a tutti coloro arrivati da diverse parti del Paese per unirsi allo sciopero nazionale nella capitale, indigeni, membri delle comunità, ronderos (i componenti della Ronda campesina, pattuglie contadine formate nelle comunità rurali come forma di autodifesa, ndt), gli strati più oppressi della società peruviana. Poi si è scatenata la repressione della polizia: lacrimogeni, arresti arbitrari, maltrattamento dei detenuti e violenza gratuita contro i manifestanti.
Eroismo delle masse ad Ayacucho
I fatti forse più significativi dello sciopero nazionale hanno avuto luogo nella regione dell’Ayacucho e nella sua capitale omonima (nota anche con il nome di Huamanga). L’esercito aveva preso il controllo della piazza principale, Plaza de Armas, e bloccato tutti gli accessi al centro storico, al fine di impedire le manifestazioni per lo sciopero nazionale. Parliamo di soldati in assetto di guerra, armati di fucili d’assalto, contro la popolazione disarmata.
Ciò non ha impedito a migliaia di operai, sindacalisti, contadini, studenti e lavoratori in generale di scendere in piazza in sfida aperta dello stato d’emergenza. Grazie alla forza dei loro corpi disarmati sono riusciti a sfondare i blocchi militari, penetrando nella piazza centrale al grido di “questa è Ayacucho, coraggiosa e combattiva”.
Le masse mobilitate hanno risposto all’accusa diffamatoria di terrorismo, da parte dei media borghesi, gridando “non siamo terroristi, siamo gente che lotta”.
I manifestanti si sono quindi diretti all’aeroporto regionale Alfredo Mendívil Duarte per tentare di prenderne il controllo. Un gruppo di 200 manifestanti è riuscito a penetrare il perimetro, ma li aspettavano soldati dell’esercito che sparavano munizioni vere ad altezza d’uomo, appoggiate dai lacrimogeni sparati da elicotteri militari. Stando alle cifre ufficiali del Diresa (Direzione regionale della sanità) dell’Ayacucho, quel giorno le “forze dell’ordine” hanno ucciso sette persone.
In seguito gruppi di manifestanti hanno dato fuoco all’ufficio principale del Procuratore generale di Ayacucho, che si trova a Ñahuinpuquio: è stata la seconda sede di una Procura a essere presa d’assalto nel giorno dello sciopero.
Il governo regionale dell’Ayacucho ha diramato un comunicato incolpando per la repressione la “signora Dina Boluarte” (che non a caso non la hanno chiamata presidente) e i ministri dell’interno e della difesa, dei quali ha chiesto le dimissioni.
In aggiunta ai morti di Ayacucho, la repressione di ieri ha fatto altre due vittime a La Libertad, nel nordovest del Paese. Il numero totale delle persone uccise dal governo usurpatore dal 7 dicembre ammonta ora a 18, tra cui due minorenni.
Castillo ancora dietro le sbarre
Nel frattempo, in ritardo rispetto ai tempi che erano stati prospettati in un primo momento, la magistratura ha disposto che il presidente Castillo dovrà restare agli arresti per 18 mesi (!!) per presunti crimini di “ribellione, complotto, abuso di potere e gravi disturbi all’ordine pubblico”. Tenerlo dietro le sbarre vuole impedirgli di diventare un simbolo capace di compattare il movimento, ma potrebbe sortire l’effetto contrario. Le accuse contro di lui non hanno alcuna base legale. Il presidente ha agito nel quadro dei suoi poteri costituzionali quando ha decretato la chiusura del Congresso e la convocazione di nuove elezioni.
Ma oltre ai dettagli legali e costituzionali, che comunque hanno una loro importanza, la verità è che il 7 dicembre è avvenuto un colpo di Stato da parte dell’oligarchia capitalista peruviana, su consiglio dei suoi padroni a Washington, contro il presidente Castillo. Nonostante le concessioni e i compromessi fatti da Castillo verso la classe dominante, i padroni del Perù non potevano accettare che un maestro e sindacalista rondero (cioè di origini rurali) fosse divenuto presidente. Hanno sabotato la sua presidenza sin dal primo giorno e ora hanno ritenuto che fosse giunto il momento di sbarazzarsene.
Hanno fatto molto male i loro calcoli. Non avevano tenuto in conto la reazione degli operai e dei contadini, per i quali non è in gioco solo la presidenza di Castillo. Agli occhi delle masse, il fattore centrale messo in assoluta evidenza da questi fatti riguarda chi governa il Paese, chi ha dato diritto all’oligarchia capitalista di rimuovere il presidente democraticamente eletto e scelto dalle masse.
La decisione di imporre 18 mesi di detenzione preventiva imposta dalla mafia della giustizia borghese, parte integrante del golpe, è stata accompagnata dall’annuncio di un coprifuoco di cinque giorni in 15 province di 8 dipartimenti del Paese. Segue una lista dei principali centri dell’insurrezione popolare contro il golpe: Arequipa (Arequipa), La Libertad (Virú), Ica (Ica, Pisco), Apurímac (Andahuaylas e Chincheros), Cusco (Cusco, La Convención, Chumbivilcas, Espinar), Puno (Carabaya, San Román), Huancavelica (Tayacaja, Angares) e Ayacucho (Cangallo).
La risposta degli usurpatori è la repressione: una scommessa pericolosa
È chiaro che, nei calcoli del governo usurpatore di Dina Boluarte, la repressione sarà in grado di schiacciare il movimento. È una scommessa rischiosa e pericolosa, che necessariamente porterà a un ulteriore bagno di sangue. La classe dominante pensa che sia un prezzo accettabile per riprendere il controllo della situazione.
Mentre le strade si riempivano delle masse in mobilitazione e l’esercito e la polizia passavano alla repressione, all’interno del Congresso sono state avanzate diverse idee per anticipare le elezioni alla fine del 2023, ma senza raggiungere una decisione.
È chiaro che alla classe dominante e ai suoi rappresentanti politici le elezioni tornano utili solo se riescono prima a controllare il movimento. Jorge Montoya, deputato reazionario di Renovación Popular, l’ha messa in questi termini: “È impossibile prendere una decisione sotto la pressione di questi elementi. Le decisioni si prendono quando nel Paese c’è la pace. Non puoi decidere se hai una banda di criminali a farti pressione per fare una determinata cosa. Non si tratta con i criminali, e questi sono criminali. Le Forze armate e la Polizia nazionale hanno il dovere di trasformare questa esplosione in un luogo calmo e pacifico, sicuro per tutti i peruviani”.
Queste sono le parole spietate usate da coloro per i quali la vita degli operai e dei contadini non ha alcun valore e la democrazia è solo una foglia di fico per il dominio nudo e crudo del capitale e dell’imperialismo.
In questa situazione il movimento contro il golpe deve fare un nuovo passo avanti. In diverse province è già stato proclamato lo sciopero di 72 ore, in altre non sono stati dati limiti di tempo. È necessario unire le lotte in un nuovo sciopero nazionale, possibilmente di 48 o 72 ore. È necessario riorganizzare e rafforzare i blocchi stradali. Bisogna estendere a tutto il Paese la formazione di Assemblee popolari e Comandi unificati della lotta, da coordinare attraverso un’Assemblea rivoluzionaria nazionale degli operai e dei contadini, con delegati eletti e revocabili da parte di tutti i settori in lotta.
Alla domanda “chi governa il Paese?” occorre rispondere in modo chiaro e netto: “cacciamoli tutti, che governi il popolo lavoratore!”