La guerra e l’illusione del "cessate il fuoco"
Dopo oltre un mese di combattimenti feroci, che hanno prodotto più di mille morti fra i civili libanesi e circa 120 fra i soldati israeliani, una tregua è stata raggiunta in Libano. Quanto questa "pace" possa durare però è tutto da scoprire.
L’offensiva dell’esercito israeliano si è conclusa per il momento con una sostanziale sconfitta. Dopo 33 giorni di bombardamenti Hezbollah non è stato annientato, anzi esce chiaramente come il vero vincitore morale. La popolarità di Nasrallah, il suo leader è chiaramente rafforzata dalla guerra in tutto il mondo arabo. Dal 1948 ad oggi, l’esercito israeliano aveva battuto con relativa facilita gli eserciti di Egitto, Siria, Giordania. Il fatto che non sia riuscito a piegare la resistenza di alcune migliaia di guerriglieri avrà conseguenze molto importanti sulla psicologia di tutte le classi in Israele. Le critiche nei confronti del governo Olmert sono assordanti ed una sua crisi sembra inarrestabile.
L’obiettivo dell’esercito israeliano non era certo quello di liberare i due ostaggi. Scaramucce di questo genere avvengono di frequente alla frontiera e le due parti non sono nuove allo scambio di prigionieri. Il governo israeliano aveva preso a pretesto il rapimento per regolare i conti in maniera definitiva con Hezbollah, disarmando le sue milizie ed assicurarsi così che a Beirut fosse insediato un governo di servi obbedienti. Tel Aviv non si era resa conto che entrare in Libano, dopo ben 18 anni di occupazione, finita solo nel 2000, avrebbe scatenato una resistenza popolare di massa. È questa che ha fermato l’avanzata dell’esercito israeliano. Non certo l’esercito libanese, scomparso nel mese di conflitto, i cui generali sarebbero con ogni probabilità scesi a patti volentieri con l’occupante. L’inettitudine dell’esercito libanese è l’ennesima prova dell’incapacità della borghesia araba, dimostrata negli ultimi sessant’anni almeno, di scontrarsi con l’imperialismo.
La popolarità di Hezbollah si fonda sulla resistenza ad Israele, ma anche sulla fitta rete di servizi sociali che ha saputo creare, intervenendo là dove nessuna istituzione aveva mai osato andare, nei quartieri poveri di Beirut e delle altre città libanesi. Ma soprattutto ha intercettato il malessere di un'intera generazione di militanti di sinistra, cresciuta negli anni ottanta e novanta, che si è sentita tradita dalla direzione del partito comunista e delle varie organizzazioni progressiste. Parte di questi dirigenti hanno chiesto protezione alla Siria, altri hanno seguito la parabola moderata della direzione dell'Olp. Il movimento operaio libanese non ha più avuto una voce indipendente, i lavoratori sono stati divisi su basi etniche e religiose. Hezbollah ha riempito questo vuoto e tanti militanti comunisti e di sinistra hanno ingrossato le fila del Partito di Dio.
Hezbollah è tuttavia un movimento reazionario, finanziato dal regime teocratico iraniano. In realtà Nasrallah, dopo che la Siria fu costretta a ritirarsi dal Libano l’anno scorso, sarebbe stato ben contento di far parte del nuovo ordine filo imperialista. Ha accettato allora di entrare nel nuovo governo Siniora, quello insediato dopo il ritiro della Siria sotto tutela francese e americana, con due ministri. Nasrallah ha operato chiaramente una distinzione tra Israele e l’Occidente, definendo solo il primo una forza di occupazione, differenziandolo così dall’Unione Europea (anche se diversi governi dell’Ue hanno mandato, come noto, truppe in Iraq).
Ha accettato la risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, quella che ha “imposto” il cessate il fuoco, e con essa la presenza di truppe straniere sul territorio del Libano.
Il "Partito di dio" era ed è disposto al dialogo. Come lo sarebbe anche Hamas in Palestina. Non sono movimenti che pongono in discussione questo sistema economico e la loro direzione rappresenta una parte della classe possidenti, tuttavia, in mancanza di un’alternativa a sinistra, rappresentano un veicolo pericoloso di espressione della rabbia delle masse.
Questo fattore di destabilizzazione, rappresentato da Hezbollah, non può essere tollerato dalla classe dominante israeliana e dai suoi amici a Washington. In una situazione, quella Mediorientale, dove gli Stati Uniti si trovano impantanati in Iraq, che ci sia almeno Israele a svolgere il ruolo di fedele cane da guardia, pensano gli strateghi della Casa Bianca: così all’esercito israeliano viene permessa ogni azione, comprese le più crudeli, da Jenin a Cana. Ma se l’Iraq si è tramutato in un pantano, per Israele il territorio libanese potrebbe rivelarsi pieno di sabbie mobili.
La risoluzione dell’Onu
In queste desolate giornate agostane un grande protagonista sembra essere tornato sulla scena politica internazionale: l’Onu. E, più a sinistra si guarda nello schieramento politico italiano, maggiore è la gioia per questo “amico ritrovato”. Finalmente, si dice, l’Onu ha riscoperto il suo ruolo. Ha imposto la tregua ed ora la farà rispettare con una forza multinazionale che potrebbe essere addirittura guidata, secondo le ultime indiscrezioni, addirittura dall’Italia.
Forse ci si dimentica che l’Unifil, la famosa forza di interposizione che indossa i caschi blu, è presente in Libano dal… 1978! Giunta con il compito di “ristabilire la pace e la sicurezza”, non ha fermato una guerra civile, l’invasione da parte di Israele, quella della Siria, la strage di Sabra e Chatila, e potremo andare avanti ancora a lungo.
Se non fosse che stiamo parlando di vicende tragiche, la storia di un’altra missione, l’Untso, sarebbe comica. Tale missione, con quartier generale a Gerusalemme fu mandata in questa regione “per la supervisione della tregua” tra israeliani e palestinesi nel 1948. Doveva far rispettare la risoluzione 181 delle Nazioni unite che prevedeva la “creazione degli Stati arabo ed ebraico entro e non oltre il 1 ottobre 1948”. I palestinesi ancora aspettano, mentre l’Onu spende 30 milioni di dollari l’anno per il mantenimento di una delle sue missioni più longeve.
Queste risoluzioni delle Nazioni sono nella maggior parte dei casi carta straccia o, nel “migliore” dei casi, delle foglie di fico, di cui le grandi potenze si servono per portare avanti i propri interessi.
La Risoluzione in questione, la 1701, è di un’ambiguità assoluta. Prevede il ritiro di Israele e il disarmo di tutti i gruppi armati in Libano, che deve essere assolto dall’Esercito libanese assistito dall’Unifil.
Il disarmo di Hezbollah è stata la condizione essenziale per l’assenso di Olmert (e di Condoleeza Rice) alla risoluzione, ma se tale disarmo venisse attuato, si scatenerebbe una guerra civile in Libano. Siccome né il governo libanese né la forza multinazionale sono in grado di compiere un’impresa simile (ammesso che lo vogliano), la risoluzione fornisce una giustificazione ad Israele per intervenire di nuovo in futuro, proprio “per disarmare Hezbollah”. Anzi, Tel Aviv ha già rotto la tregua più volte, la prima tre giorni fa, provocando il rimprovero bonario di Kofi Annan, simile a quello del genitore davanti ad una marachella del figlio.
La nuova missione Onu si troverà di fronte a due possibilità: o il più assoluto immobilismo, spettatrice di fronte a nuovi scontri, o diventare parte attiva nel conflitto, schierandosi con una delle due parti.
Ancora prima di partire, l’invio di 15mila soldati incontra serie difficoltà: tutti dicono che “è necessario far presto”, ma nessuno dei governi europei, tranne quello italiano, sembra disposto per ora a rischiare ed intervenire in una situazione così instabile.
Ci ha provato allora il presidente Usa Bush nella giornata di ieri a spronare le democrazie occidentali, dettando le sue condizioni per l’impiego delle forze Onu. Sponsorizzando, come fatto da Olmert, la loro guida da parte dell’Italia (paese di cui evidentemente si fidano assai), ha proclamato che “Le forze di Hezbollah dovranno essere ad un certo punto disarmate se si vuole giungere al successo della pace in Libano”, chiedendo infine regole d’ingaggio “robuste”.
Insomma questa nuova iniziativa di pace dell’Onu pare già morta prima di nascere ed, in ogni caso, non porterà alcuna pace in questo paese così martoriato. Inoltre non sarebbe la prima volta che una missione approvata dal Consiglio di sicurezza Onu, cambia mandato: lo possiamo notare chiaramente rispetto all’intervento in Aghanistan. L’invio della spedizione, denominata Isaf, fu autorizzato dall’Onu nel dicembre 2001, che ne ha mantenuto il controllo fino all’agosto del 2003, data in cui la Nato “ha assunto il controllo il ruolo di leadership dell’Isaf, forza con mandato Onu” senza aver ricevuto in tal senso alcun mandato. (il Manifesto, 17 agosto) Solo successivamente il consiglio di Sicurezza ha riconosciuto il fatto compiuto.
Una missione di pace?
In Libano l’Unifil si potrebbe dimostrare incapace di mantenere la pace; in quel caso subito si leverebbero le voci di chi vuole la mano dura per “fermare il caos”. Ci vorrebbe ben poco per cambiare “regole d’ingaggio” e finalità alle truppe già schierate sul territorio. E un intervento di “pace” assumerebbe tutte le caratteristiche di quello che è già potenzialmente un intervento imperialista. Che poi si faccia sotto le bandiere della Nato, dell’Ue o degli Usa cambia ben poco, come abbiamo visto dal Kosovo all’Iraq.
E cosa faranno allora i paladini dei movimenti pacifisti che inneggiano al ritrovato protagonismo dell’Italia nel mediterraneo? La logica diventa quella della “riduzione del danno”, già vista in questi mesi. La nuova linea Maginot della “sinistra radicale” diventa quella di spostare i finanziamenti destinati al contingente in Afghanistan verso la nuova impresa libanese.
La lotta per la “pace”, quando è astratta, depurata da ogni contenuto di classe, si può tramutare velocemente nel suo contrario. Una dimostrazione di ciò la vediamo nelle dichiarazioni del compagno Ferrero:
“Va chiarito che l´Onu si pone in mezzo ai due ‘pugili’, senza partecipare al duello, senza sferrare a sua volta pugni e senza cercare di disarmare l´uno o l´altro”. (La repubblica, 18 agosto)
Gli eserciti non sono mai neutrali, tantomeno lo possono diventare per l’incantesimo di una risoluzione Onu. Difendono interessi di classe ben precisi.
Forse se ne accorge anche Ferrero quando ammette che “le regole di ingaggio potranno ben prevedere un diritto di difesa in caso d´attacco”. Attacco da parte di chi, in risposta a quali azioni compiute dall’esercito italiano? In Iraq, in Afghanistan, in Somalia, si è dimostrato come in caso di scontro, le Forze armate Italiane sono state sempre dalla parte dell’imperialismo Usa. Non c’è ragione per dubitare che in Libano accada altrimenti.
Liberazione, Manifesto ed Unità sono pieni di appelli per la pace e la stabilità del Medioriente
Ma cosa significa la “stabilità del Medioriente”? Altro non è che la possibilità per i dittatori arabi di opprimere le masse dei rispettivi paesi, per la classe dominante israeliana di schiacciare i palestinesi e sfruttare le masse israeliane, per le multinazionali europee ed americane di continuare a fare i propri profitti. Quando la stabilità è minacciata dal movimento delle masse, non ci sono dubbi rispetto a dove i generali si schierano.
L’intero Medioriente è una polveriera. L’intervento di Israele non ha risolto, ma aggravato la situazione. L’esito di questa guerra avrà conseguenze storiche per la lotta di classe in Israele. Per decenni i sionisti hanno potuto legare i lavoratori allo stato israeliano garantendo la sicurezza e la tutela da parte di un esercito invincibile. Oggi non è più così.
A centinaia i riservisti ieri hanno manifestato a Gerusalemme chiedendo le dimissioni di Olmert, del ministro della difesa Peretz e del capo delle forze armate Dan Halutz, un fatto quasi inedito nella storia d’Israele.
L’economia attraversa una pesante crisi, mentre la disoccupazione è in aumento. Uno degli scopi dell’attacco ad Hezbollah da parte del governo Olmert era quello di distogliere l’attenzione delle masse dai problemi reali. Oggi la maggior parte della popolazione vuole la mano ancora più dura contro “i terroristi” e critica perché le forze armate israeliane non sono andate fino in fondo. Il problema è che la guerra in Libano o in Palestina non può essere vinta da Israele. Non si può vincere contro una guerriglia con un vasto appoggio popolare. Mentre i giovani israeliani, i figli dei lavoratori, continueranno a morire al fronte, l’elite al potere continuerà ad arricchirsi senza freni: i casi di corruzione che vedono coinvolti governanti vecchi e nuovi non si contano più. Tutto ciò avrà conseguenze sulla coscienza dei lavoratori e i giovani a Tel Aviv o ad Haifa.
Solo sulla base dello sviluppo delle differenziazioni e della lotta di classe si potrà produrre una crisi nell’unità nazionale israeliana. Proprio per questo movimenti che incitano alla guerra di religione non potranno mai sconfiggere la classe dominante di Tel Aviv.
L’unica dichiarazione di guerra efficace sarebbe quella al sistema capitalista, vera origine di tutte le tragedie mediorientali.
Il migliore aiuto che la sinistra in Italia potrebbe fornire alle sofferenze delle masse oppresse di quella regione sarebbe proprio l’adozione di un programma che metta in discussione l'attuale sistema economico, che unita al rifiuto dell’invio di un contingente italiano in Libano come al ritiro delle altre missioni, dall'Afghanistan all'Iraq, darebbe anche nuovo vigore ad un movimento contro la guerra oggi spaesato dalle continue giravolte dei dirigenti.
22 agosto 2006