Previsione e stupore
Il Maggio 1968 fu il più grande sciopero generale rivoluzionario nella storia. Questo enorme movimento giunse al culmine del boom economico capitalista del dopoguerra. Allora, come oggi, la borghesia e i suoi profeti si congratulavano tra loro per la fine delle rivoluzioni e della lotta di classe, retaggi del passato. Poi giunsero gli eventi francesi del 1968, che sembrarono cadere come un fulmine a ciel sereno, e colsero di sorpresa gran parte della sinistra, perché ormai tutti avevano depennato la classe operaia europea dal novero delle forze rivoluzionarie.
Nel Maggio 1968 l’Economist pubblicò un supplemento speciale sulla Francia scritto da Norman Macrae in occasione del decimo anniversario del governo gaullista. In questo supplemento, Macrae cantava le lodi dei successi del capitalismo francese, rilevando come i francesi avessero un tenore di vita più alto degli inglesi, mangiassero più carne, possedessero più automobili e così via. E menzionò il “grande vantaggio nazionale” della Francia sui suoi vicini dall’altra parte della Manica: i suoi sindacati erano “pateticamente deboli”. L’inchiostro non si era ancora asciugato sull’articolo di Macrae che la classe operaia francese sbalordì il mondo con una insurrezione come non se ne sono viste altre nell’epoca moderna.
Gli eventi del Maggio non vennero previsti dagli strateghi del capitale, né in Francia né altrove. Non vennero previsti neppure dagli stalinisti e dai leader riformisti. Non parliamo della cosiddetta sinistra rivoluzionaria! Le signore e i signori che si autoproclamavano marxisti (la maggior parte dei quali avevano trascorso decenni discorrendo di “lotta armata”, insurrezione e tutto il resto) non solo non furono in grado di prevedere alcuna mobilitazione dei lavoratori francesi. Negarono in modo assoluto che vi fosse una simile possibilità!
Prendiamo ad esempio uno dei “teorici” di questi marxisti “accademici”, André Gorz. Costui scrisse in un articolo che “nel futuro prevedibile non vi saranno crisi del capitalismo europeo così drammatiche da condurre la massa dei lavoratori a scioperi generali rivoluzionari o a insurrezioni armate a sostegno dei loro interessi vitali.” (A. Gorz, Riforma e Rivoluzione, in The Socialist Register, 1968. Nostro corsivo) Queste righe furono pubblicate nel bel mezzo del più grande sciopero generale rivoluzionario della storia!
Gorz non era l’unico a considerare fuori gioco la classe operaia. Il “grande marxista” Ernest Mandel tenne un discorso in un’assemblea a Londra soltanto un mese prima di questi grandi eventi. Nel corso della sua introduzione parlò di ogni argomento possibile, ma non menzionò neppure di sfuggita la situazione della classe lavoratrice francese. Quando questa contraddizione gli venne fatta notare da uno dei nostri compagni dalla platea, la sua risposta fu che i lavoratori si erano imborghesiti e “americanizzati” e che non ci sarebbe stato alcun movimento degli operai francesi nei successivi venti anni.
Il contesto
Ciò che nessuno di questi signori aveva compreso era che il lungo periodo di boom capitalista dopo il 1945 aveva trasformato i rapporti di forza e rafforzato enormemente la classe operaia europea. Prima della Seconda guerra mondiale la classe dominante francese aveva cercato di basarsi sull’arretratezza. Dopo l’esperienza della Comune di Parigi la borghesia francese era terrorizzata dalla crescita del proletariato e aveva perciò sviluppato un’economia parassitaria di rendita, fondata pesantemente sul capitale finanziario, sulle banche e sulle colonie.
Lo sviluppo dell’industria comporta che il proletariato stesso sia molto più forte che negli anni ’30, per non parlare dell’epoca della Comune di Parigi, quando praticamente tutti gli operai lavoravano in piccole botteghe. Ancora nel 1931 quasi due terzi di tutte le imprese industriali in Francia non occupavano alcun operaio salariato, e un altro terzo ne occupava meno di dieci. Soltanto lo 0,5% delle imprese industriali occupava più di cento lavoratori. Dopo la Seconda guerra mondiale ci fu invece un forte sviluppo dell’industria in Francia, che portò a un rapido rafforzamento del proletariato e a un graduale declino del numero dei contadini.
All’epoca della crisi rivoluzionaria del 1936, metà della popolazione francese guadagnava il proprio sostentamento dall’agricoltura, mentre oggi la popolazione rurale è meno del 6% del totale. Nel 1968 la classe salariata era cresciuta non solo in numero, ma anche quanto al potenziale di lotta. Il cambiamento fondamentale venne mostrato nel 1968 nel ruolo chiave giocato dalle enormi fabbriche come gli stabilimenti Renault a Flins, con una forza lavoro totale di 10.500 operai, 1.000 dei quali parteciparono ai picchetti e almeno 5.000 parteciparono quotidianamente alle assemblee di sciopero in quella sola fabbrica.
Nel 1936, quando i rapporti di forza tra le classi era infinitamente meno favorevole, in una situazione dieci volte meno avanzata, Trotskij disse che il Partito Comunista (PCF) e il Partito Socialista (SP) avrebbero potuto prendere il potere:
“Se il partito di Léon Blum fosse stato veramente socialista avrebbe potuto, basandosi sullo sciopero generale, rovesciare la borghesia a giugno, quasi senza neppure una guerra civile, con un minimo di disordini e perdite umane. Ma il partito di Blum è un partito borghese, il fratello minore del marcio Radicalismo.” (Leon Trotskij, Sulla Francia, nostro corsivo).
I rapporti di forza nel 1968 erano di gran lunga più favorevoli. Una trasformazione pacifica sarebbe stata possibile, se i leader del PCF si fossero comportati come dei marxisti avrebbero dovuto fare. È essenziale sottolineare questo aspetto. Soltanto il tradimento dei dirigenti stalinisti, che rifiutarono di prendere il potere quando esistevano le condizioni più favorevoli, impedì ai lavoratori francesi di prendere il potere.
Il ruolo degli studenti
Gli studenti costituiscono sempre un barometro sensibile delle tensioni che si vanno accumulando nel profondo della società. L’ondata di manifestazioni studentesche e occupazioni che precedette gli eventi di Maggio fu come il lampo che precede la tempesta. Nei mesi precedenti a Maggio ci fu un grande fermento tra gli studenti, che si manifestò in una serie di manifestazioni e occupazioni.
Di fronte alla marea montante di proteste studentesche, il Rettore della prestigiosa Università della Sorbona decise di chiudere l’ateneo, per la seconda volta in 700 anni. La prima volta era stata nel 1940, quando i nazisti occuparono Parigi. I tentativi della polizia di sgombrare i cortili della Sorbona il 3 maggio furono la scintilla che diede fuoco al barile di polvere da sparo. La violenza esplose nel Quartiere latino, provocando più di 100 feriti e 596 arresti. Il giorno successivo alla Sorbona vennero sospese le lezioni. Le principali organizzazioni studentesche, l’UNEF e il Snesup, proclamarono scioperi a oltranza. Il 6 maggio fu teatro di nuove battaglie nel Quartiere latino: 422 arresti; 345 poliziotti e circa 600 studenti furono feriti. La repressione causò un’ondata di indignazione. Studenti inferociti divelsero sampietrini e li lanciarono contro la polizia, erigendo barricate nella vecchia sana tradizione francese. Gli studenti universitari di tutta la Francia offrirono il loro sostegno.
La notte del 10 maggio ci fu una vera e propria sommossa nel Quartiere latino. I manifestanti eressero barricate, che furono assalite dalla polizia con estrema violenza. I teppisti armati del CRS (i “celerini”) fecero irruzione negli appartamenti privati e pestarono selvaggiamente comuni cittadini, perfino una donna incinta. Ma la reazione andò oltre le loro attese. I parigini bombardarono la polizia con vasi da fiori e altri oggetti pesanti gettati dalle finestre. Sulle 367 persone ricoverate in ospedale, 251 erano poliziotti. Altre 720 persone furono ferite e 468 arrestate. Vennero incendiate o danneggiate le automobili. Il Ministro dell’Educazione insultò i manifestanti: “Ni doctrine, ni foi, ni loi” (nessuna istruzione, nessuna fede, nessuna legge).
Durante la prima settimana, i dirigenti del PCF avevano minimizzato le mobilitazioni studentesche e i leader sindacati avevano cercato di ignorarle. L’Humanité pubblicò un articolo a firma del futuro leader del PCF Georges Marchais con il titolo Falsi rivoluzionari da smascherare. Ma di fronte alla generale indignazione popolare e alla pressione della base, la burocrazia sindacale fu costretta a muoversi. L’11 maggio, i principali sindacati, CGT, CFDT e FEN, proclamarono lo sciopero generale per il 13 maggio. Circa 200.000 manifestanti scandirono slogan come “De Gaulle assassino!”
Tornato in tutta fretta a Parigi, Georges Pompidou annunciò la riapertura della Sorbona per quello stesso giorno. Questo voleva essere un gesto di compromesso per scongiurare ulteriori esplosioni sociali. Ma era troppo poco, e troppo tardi. Le masse lo percepirono come un segnale di debolezza e si spinsero ancora più avanti.
Sciopero generale
Il fermento tra gli studenti fu solo la più evidente manifestazione di malcontento nella società francese. Nonostante il boom economico, i padroni francesi avevano applicato una pressione senza pietà sui lavoratori. Sotto una superficie di calma apparente si accumulavano in enorme misura malcontento, amarezza, frustrazione. Già in gennaio vi furono atti violenti durante una manifestazione di scioperanti a Caen.
Lo sciopero generale del 13 Maggio segnò un punto di svolta qualitativo. Centinaia di migliaia di studenti e operai riempirono le strade di Parigi. Un’idea di questa giornata la può dare la seguente descrizione dell’imponente corteo di un milione di persone che percorse le strade di Parigi il 13 Maggio:
“Scorrevano senza fine. C’erano interi spezzoni composti da dipendenti sanitari in camice bianco, alcuni portavano cartelli con scritto ‘Où sont les disaparus des hopitaux?’ (‘Dove sono i feriti scomparsi’). Ogni fabbrica, ognuno dei principali luoghi di lavoro, sembravano essere rappresentati. C’erano numerosi gruppi di lavoratori delle ferrovie, postini, stampatori, dipendenti del Metro, operai metalmeccanici, lavoratori degli aeroporti e dei mercati, elettricisti, avvocati, lavoratori degli impianti fognari, impiegati di banca, operai edili, lavoratori del vetro e chimici, camerieri, impiegati municipali, verniciatori e decoratori, lavoratori del gas, commesse, impiegati assicurativi, spazzini, operatori cinematografici, conducenti di bus, insegnanti, operai delle nuove industrie plastiche, fila dopo fila dopo fila, la carne e il sangue della moderna società capitalista, una massa senza fine, una potenza che avrebbe potuto spazzare via ogni cosa davanti a sé, se solo avesse deciso di farlo.” (Citato in Revolutionary rehearsals, pag.12).
I dirigenti sindacali speravano che questo sarebbe stato sufficiente a fermare il movimento. Questi dirigenti non volevano che lo sciopero generale continuasse e si diffondesse. Vedevano la manifestazione come un mezzo per far diminuire la pressione. Ma una volta che iniziò, il movimento presto acquisì una propria vita. La convocazione dello sciopero generale fu come una pietra pesante gettata in un lago tranquillo. Le onde raggiunsero ogni angolo della Francia. Nonostante fossero soltanto tre milioni e mezzo circa i lavoratori organizzati in sindacati, dieci milioni scesero in sciopero e un’ondata di occupazioni di fabbriche prese avvio in tutta la Francia.
Il 14, il giorno dopo il corteo di massa a Parigi, gli operai occuparono le fabbriche di Sud-Aviation a Nantes e della Renault a Cléon, seguiti dai lavoratori della Renault a Flin, Le Mans e Boulogne-Billancourt. Gli scioperi colpirono altre fabbriche in tutta la Francia, e inoltre l’azienda di trasporti RATP e le ferrovie della SNCF. I giornali non venivano distribuiti. Il 18 maggio i minatori di carbone incrociarono le braccia e il trasporto pubblico si fermò a Parigi e in altre importanti città. Le ferrovie nazionali furono le successive a bloccarsi, seguite dal trasporto aereo e marittimo, gli operai del gas e dell’elettricità (che decisero di mantenere attive le forniture domestiche), i servizi postali e i traghetti attraverso la Manica.
Gli operai presero controllo delle forniture di carburante a Nantes, rifiutando l’ingresso a tutte le cisterne di benzina che non avessero ricevuto l’autorizzazione dal comitato di sciopero. Venne organizzato un picchetto presso l’unica pompa di benzina funzionante in tutta la città, in modo da assicurare che soltanto i medici potessero approvvigionarsene. Vennero stretti contatti con le organizzazioni di contadini nelle aree circostanti e vennero garantiti rifornimenti di cibo a prezzi fissati dagli operai e dai contadini. Per evitare speculazioni, i negozi dovevano esibire un adesivo nelle vetrine con la scritta: “Questo negozio è autorizzato e aperto. I suoi prezzi sono sotto la supervisione permanente dei sindacati.” L’adesivo era firmato da CGT, CFDT e FO. Un litro di latte era venduto a 50 centesimi contro i normali 80, un chilo di patate era scontato da 70 a 12 centesimi, un chilo di carote da 80 a 50, e così via.
Studenti, insegnanti, professionisti, contadini, calciatori, perfino le ragazze del Folies Bergères: tutti vennero trascinati nella lotta. A Parigi gli studenti occuparono la Sorbona. Il Theatre de l’Odéon venne occupato da 2.500 studenti e gli studenti delle superiori occuparono le scuole:
“La febbre dell’occupazione contagiò tutta l’intelligentsia. Dottori radicali occuparono gli uffici dell’Associazione Medici, architetti di sinistra proclamarono la dissoluzione del proprio ordine, attori chiusero tutti i teatri della capitale, scrittori guidati da Michel Butor occuparono la Società des Gens de Lettres all’Hotel de Massa. Perfino dirigenti finanziari entrarono in azione, occupando per un certo periodo l’edificio del Conseil National du Patronat Français, e successivamente la Confederation Generale des Cadres.” (David Caute, Sessantotto, l’Anno delle Barricate).
Poiché le scuole erano chiuse, insegnanti e studenti organizzarono asili, attività ludiche, pasti gratuiti e altre attività per i figli degli scioperanti. Le mogli dei lavoratori dei comitati di sciopero si organizzarono e giocarono un ruolo fondamentale preparando i rifornimenti di cibo. Non solo gli studenti, ma anche i settori di professionisti vennero contagiati dall’infezione rivoluzionaria. Gli astronomi occuparono un osservatorio. Vi fu uno sciopero al centro di ricerca nucleare di Saclay, dove la maggioranza dei 10.000 dipendenti erano ricercatori, tecnici, ingegneri o scienziati laureati. Perfino la Chiesa non rimase immune. Nel Quartiere latino, giovani dei movimenti cattolici occuparono una chiesa e pretesero che si tenesse un dibattito al posto di una messa.
Potere nelle strade
Gli scontri a Parigi continuarono, con lavoratori e studenti che sfidavano i lacrimogeni e le cariche armati di bastoni. In una sola notte vi furono 795 arresti e 456 feriti. I manifestanti cercarono di dare fuoco alla Borsa di Parigi, l’odiato simbolo del capitalismo. Un Commissario di Polizia venne ucciso da un furgone a Lione.
Una volta scesi in lotta, i lavoratori iniziarono a prendere l’iniziativa, che andò ben oltre i limiti di un normale sciopero. Un elemento chiave nell’equazione furono i mezzi di comunicazione di massa. Formalmente si tratta di uno strumento potente nelle mani dello Stato. Ma dipendono per il loro funzionamento anche dai lavoratori delle stazioni radiofoniche e televisive. Il 25 maggio la radio e la televisione di Stato (ORTF) scesero in sciopero. Alle otto di sera i telegiornali furono oscurati. Le tipografie e i giornalisti imposero una sorta di controllo dei lavoratori sulla stampa. I giornali borghesi dovettero sottoporre gli editoriali al vaglio dei comitati di lavoratori, e furono costretti a pubblicarne le dichiarazioni.
L’Assemblea Nazionale (il parlamento, ndt) discusse della crisi universitaria e delle battaglie al Quartiere latino. Ma le discussioni all’interno dell’Assemblea erano ormai irrilevanti. Il potere era scivolato dalle mani dei legislatori e giaceva nelle strade. Il 24 maggio il presidente De Grulle annunciò un referendum alla radio e alla televisione. Il suo piano di tenere il referendum venne reso vano dall’azione dei lavoratori, il generale non fu neppure in grado di ottenere che venissero stampate le schede elettorali a causa dello sciopero dei lavoratori delle tipografie ed il rifiuto dei loro colleghi belgi di sostituirli. Questo non fu l’unico esempio di solidarietà internazionale. I conducenti di treni tedeschi e belgi fermarono i loro treni alla frontiera con la Francia per evitare di spezzare lo sciopero.
Le forze della reazione, finora in stato di shock e costrette sulla difensiva, cominciarono a riorganizzarsi. I Comitati per la Difesa della Repubblica (CDR) vennero lanciati nel tentativo di mobilitare la classe media contro operai e studenti. I rapporti di forza non sono meramente una questione di forza numerica relativa tra classe operaia da una parte e contadini e classe media dall’altra. Una volta che il proletariato intraprende una lotta decisiva, mostrando di essere una forza potente nella società, attrae rapidamente le masse sfruttate di contadini e piccoli negozianti che sono schiacciati da banche e monopoli. Questo apparve evidente nel 1968, quando i contadini organizzarono blocchi stradali intorno a Nantes e distribuirono cibo gratuitamente agli scioperanti.
Il mito dello “Stato forte”
Il movimento colse la classe dominante e il governo completamente di sorpresa. Erano terrorizzati dal movimento studentesco, come l’allora Primo Ministro, Pompidou, ammise nelle sue memorie:
“Alcuni… pensano che riaprendo la Sorbona e facendo rilasciare gli studenti io avessi mostrato debolezza e dato nuova linfa alle mobilitazioni. A costoro rispondo semplicemente: poniamo che, il lunedì 13 Maggio, la Sorbona fosse rimasta chiusa sotto la protezione della polizia. Chi può immaginare che la folla che marciava verso Denfert-Rochereau non sarebbe riuscita a fare irruzione, spazzando ogni cosa davanti a sé come un fiume in piena? Io scelsi di consegnare la Sorbona agli studenti piuttosto che vederli prenderla con la forza.” (G. Pompidou, Pour Rétablir une Vérité).
E altrove aggiunge:
“La crisi era infinitamente più seria e più profonda; il regime avrebbe retto o sarebbe stato rovesciato, ma non poteva essere salvato da un semplice rimpasto. Non era la mia posizione ad essere in discussione. Era il Generale De Gaulle, la Quinta Repubblica e, in una notevole misura, lo stesso regime repubblicano.” (Ibid., nostro corsivo).
Che cosa intendeva Pompidou quando diceva che “lo stesso regime repubblicano” era in pericolo? Intendeva che lo stesso Stato capitalista correva il rischio di essere rovesciato. E in questo, aveva ragione. Quando Pompidou cercò di disinnescare la crisi riaprendo la Sorbona, il movimento semplicemente acquistò nuova forza con un corteo di 250.000 persone. Terrorizzato che gli studenti potessero unire le proprie forze con gli operai e prendere d’assalto l’Eliseo, il palazzo presidenziale venne evacuato.
De Gaulle inizialmente era fiducioso che i dirigenti stalinisti avrebbero salvato la situazione. Disse al suo consigliere per la marina, François Flohic, “Non si preoccupi, Flohic, i Comunisti li terranno a bada.” (Philippe Alexandre, L’Eliseo in pericolo).
Che cosa dimostrano queste parole? Né più né meno che il sistema capitalista non potrebbe esistere senza l’appoggio dei dirigenti di sinistra riformisti (e stalinisti). Questo appoggio è assai più importante per loro che qualsiasi numero di carri armati e poliziotti. De Gaulle, essendo un borghese intelligente, lo comprendeva perfettamente. Nel tentativo di mostrare la sua suprema indifferenza agli eventi francesi, il Presidente De Gaulle lasciò lo Stato per andare in visita in Romania, dove venne accolto a braccia aperte dal “Comunista” Ceausescu. In ogni caso, la sicurezza del Generale non durò a lungo.
L’essenza di una rivoluzione è che le masse cominciano a partecipare attivamente agli eventi, cominciano a prendere il loro destino nelle proprie mani. Intanto, in Francia, i dirigenti “comunisti” stavano perdendo il controllo. Bandiere rosse sventolavano su fabbriche, scuole, università, uffici di collocamento, e perfino osservatori astronomici. Il governo era inerme, lasciato sospeso a mezz’aria dall’insurrezione. Lo “Stato forte” gaullista era paralizzato. Il potere era realmente nelle mani della classe lavoratrice.
I rapporti della situazione in rapido deterioramento a Parigi scossero De Gaulle. Di fronte all’ondata crescente di rivolta il Presidente De Gaulle fu costretto ad abbandonare la sua finta indifferenza, chiudere in anticipo la visita presidenziale in Romania e tornare di corsa in Francia. Al palazzo dell’Eliseo, il Presidente De Gaulle pronunciò le parole immortali: “La riforme, oui; la chienlit, non” (Le riforme sì, i mocciosi no!). La parola chienlit è difficile da tradurre, ma significa all’incirca un bambino che non ha ancora imparato a usare un orinatoio.
Usando un simile linguaggio, De Gaulle esprimeva il suo disprezzo per i “mocciosi” nelle strade. Ma il movimento era ormai andato ben oltre il livello dei cortei studenteschi. Era come un’enorme palla di neve che rotolava lungo una ripida montagna acquistando forza e velocità a ogni istante. I settori più improbabili venivano trascinati nel calderone della lotta rivoluzionaria. Gli operatori cinematografici occuparono il Festival di Cannes. I più importanti registi francesi ritirarono i propri film dal concorso e la giuria diede le dimissioni, costringendo il festival a chiudere.
Il 20 maggio si stima 10 milioni di lavoratori erano in sciopero; il Paese era praticamente paralizzato. Il 22 maggio una mozione di censura proposta dai partiti di opposizione mancò solo per pochi voti la maggioranza nell’Assemblea Nazionale. Il governo vacillava e De Gaulle era disperato. Eppure proprio in quel momento i dirigenti delle confederazioni sindacali lanciarono un salvagente a De Gaulle, dichiarando pubblicamente che sarebbero stati disposti a negoziare con le associazioni padronali e il governo.
L’Assemblea nazionale approvò l’amnistia per i manifestanti. Ovvio! Non essendo stati in grado di schiacciare il movimento con la repressione, le autorità furono costrette a ricorrere a concessioni nel tentativo di far sbollire la situazione e guadagnare tempo. Così, sia il governo che i dirigenti sindacali collaborarono nello spegnere il movimento rivoluzionario e ricondurlo entro canali sicuri. Mentre offriva concessioni ai dirigenti studenteschi e sindacali, lo Stato proseguì ugualmente in una repressione selettiva contro quelli che considerava elementi sovversivi. A Daniel Cohn-Bendit, lo studente anarchico, venne ritirato il permesso di residenza. Fu una mossa stupida, dal momento che l’effettiva influenza di Cohn-Bendit sul movimento era minima. Ma l’azione del governo riuscì a provocare un corteo di protesta di massa a Parigi.
De Gaulle demoralizzato
Il biografo di De Gaulle, Charles Williams, descrive vivacemente il suo stato d’animo mentre era in procinto di pronunciare il suo comunicato alla nazione il 24 Maggio:
“Non c’è dubbio che, dopo l’allegria mostrata in Romania, il Generale fosse rimasto molto scosso da quel che aveva trovato al suo ritorno in Francia. Durante i tre giorni seguenti, parve a più di un visitatore, che non l’avesse visto per qualche tempo, vecchio e indeciso, il passo faticoso. Era come se tutto stesse diventando troppo impegnativo per lui.
“La trasmissione del 24 maggio, alla fine, fu un fiasco completo. Il Generale apparve, dall’aspetto e dalla voce, confuso e spaventato. È vero che annunciò un referendum sulla ‘partecipazione’, ma non era chiaro quali fossero i termini precisi della questione, e quelli che lo ascoltarono ebbero il sospetto che si trattasse soltanto di un trucco. Disse che era dovere dello Stato assicurare l’ordine pubblico, ma la sua voce era priva dell’antica autorevolezza, e le frasi, benché pronunciate sempre nello stesso linguaggio solenne, in qualche modo erano prive della stessa convinzione. Apparve come un uomo vecchio, stanco e ferito. E se ne rese conto egli stesso. ‘Ho fallito l’obiettivo’, disse quella sera. Il meglio che Pompidou riuscì a dire fu: ‘Sarebbe potuto andare peggio.’ ”
“Ma l’umore di De Gaulle, la mattina dl 25, era peggiorato ancora. Era, nelle parole di uno dei suoi ministri, ‘prostrato e invecchiato.’ Continuava a ripetere, ‘E’ il caos.’ Un altro ministro lo descrisse come un vecchio ‘senza idea per il futuro.’ Il Generale convocò il figlio Philippe, che trovò il pdare ‘stanco’ e osservò che aveva a stento dormito. Philippe suggerì al padre di partire per il porto di Brest, sull’Atlantico – ricordi del 1940 – ma questi gli rispose che non si sarebbe arreso.
“Dal 25 al 28 Maggio De Gaulle rimase in uno stato di profonda depressione. Le trattative di Pompidou con i sindacati erano stati una farsa. Aveva semplicemente concesso loro tutto ciò che volevano: enormi aumenti di salari e benefici sociali, un aumento del salario minimo del 35%. L’unico intoppo era che, anche dopo la firma dell’accordo, la CGT aveva insistito perché l’accordo venisse ratificato dai suoi iscritti. George Séguy, il leader della CGT, si recò in tutta fretta nei sobborghi parigini di Billancourt, dove 12.000 operai della Renault erano in sciopero. Quando sottopose loro l’accordo, questi lo rifiutarono seccamente e in modo umiliante per Séguy. Gli accordi di Grenelle, come vennero chiamati, erano nati morti.
“Il Consiglio dei Ministri si riunì alle 3 del pomeriggio del 27 Maggio, poco dopo il rifiuto degli accordi di Grenelle da parte dei lavoratori della Renault. Il Generale presiedeva la riunione, ma fu osservato che il suo cuore e la sua mente erano altrove. Fissava i suoi ministri senza vederli, le braccia appoggiate al tavolo davanti a lui, le spalle ingobbite, pareva ‘totalmente indifferente’ a ciò che accadeva intorno a lui. Ci fu una discussione sul referendum, e parve che il Generale ne ascoltasse soltanto dei frammenti.” (C. Williams, L’ultimo grande francese. Vita del Generale De Gaulle, corsivo nostro).
Questi estratti composti da un biografo “amico” dipingono un’immagine vivida di totale disorientamento, panico e demoralizzazione. Secondo l’ambasciatore statunitense, De Gaulle gli disse che “la partita è conclusa. Nel giro di pochi giorni i comunisti saranno al potere.”
Un intervento dell’esercito?
Gli avvenimenti erano arrivati ad un punto tale che il problema non poteva più essere risolto attraverso i soliti mezzi parlamentari. Cosa bisognava fare? L’intervento dell’ esercito era una delle opzioni prese in considerazione da De Gaulle fin dall’inizio dello sciopero generale. Nelle fasi iniziali dello sciopero, erano stati elaborati progetti per arrestare e mettere in prigione più di 20.000 attivisti di sinistra nello stadio del ghiaccio, dove sarebbero andati incontro ad un destino simile a quello dei loro omologhi cileni cinque anni dopo.
Tuttavia il piano non venne mai messo in pratica. Questi progetti del governo francese sono simili a quelli di ogni classe dominante nel corso della storia, quando deve affrontare una situazione rivoluzionaria. Il governo dello zar Nicola (che veniva chiamato “il sanguinario”) non era privo di piani di emergenza prima del febbraio 1917. Ma che tali piani possano effettivamente essere messi in pratica è una questione completamente diversa, come lo zar Nicola scoprì a proprie spese. Comunque, quello che è decisivo in una rivoluzione non sono i progetti del regime ma i rapporti di forza effettivi nella società. De Gaulle era un borghese abbastanza scaltro, ed era ben consapevole di quello che stava realmente accadendo (anche se, come vedremo, in un primo momento lo aveva sottovalutato, commettendo di conseguenza un errore molto grave. Allo stesso modo di tanti altri, non si aspettava che la classe operaia francese si sarebbe mobilitata).
De Gaulle si spinse fino al limite, si sporse verso l’abisso e si tirò indietro. Spaventato dall’ampiezza del movimento, il Generale era profondamente pessimista. Era convinto che i leader comunisti avrebbero preso il potere. Numerosi testimoni confermano che De Gaulle era afflitto e demoralizzato, ed in almeno due occasioni pensò a lasciare il Paese. Suo figlio lo spingeva a scappare passando per Brest, e altre fonti affermano che prese in considerazione di rimanere in Germania Occidentale, dove era andato per incontrare il generale Masseu. De Gaulle era un politico astuto e calcolatore che non agiva mai d’impulso, e raramente perdeva le staffe. Se disse all’ambasciatore degli USA che “il gioco è finito, e tra pochi giorni i comunisti saranno al potere”, era perché ci credeva. E E questo non era solo il suo pensiero, ma anche quello della maggioranza della classe dominante.
Sulla carta De Gaulle aveva a disposizione un apparato repressivo formidabile. C’ erano circa 144.000 poliziotti (armati) delle varie categorie, compresi 13.500 agenti delle CRS (la celere), e circa 261.000 soldati erano di stanza in Francia o nella Germania Occidentale. Se uno affronta il problema da un punto di vista meramente quantitativo, dovrebbe scartare non solo una trasformazione pacifica, ma la possibilità di una rivoluzione in generale, e non solo nella Francia del 1968. Da questo punto di vista, nessuna rivoluzione sarebbe stata vittoriosa nel corso della storia. Ma la questione non può essere posta in questo modo.
In ogni rivoluzione si levano voci che tentano di spaventare la classe oppressa con lo spettro della violenza, di spargimenti di sangue e dell’ “inevitabilità della guerra civile”. Kamenev e Zinoviev parlavano esattamente allo stesso modo alla vigilia della Rivoluzione d’ Ottobre. Heinz Dietrich e i riformisti in Venezuela usano le stesse argomentazioni nel loro tentativo di far frenare la rivoluzione venezuelana.
I nemici dell’ insurrezione nelle fila dello stesso Partito Bolscevico trovavano, comunque, terreno sufficiente per conclusioni pessimistiche. Zinoviev e Kamenev avvertivano contro la possibile sottovalutazione delle forze nemiche:
“Pietrogrado decide, ma a Pietrogrado il nemico dispone di forze considerevoli: cinquemila junkers perfettamente armati e in grado di battersi, più uno stato maggiore, più i battaglioni d'assalto, più i Cosacchi, più una notevole parte della guarnigione, più postazioni di artiglieria molto consistenti, disposte a ventaglio intorno a Pietrogrado. Inoltre, con l'aiuto del Comitato esecutivo centrale, gli avversari cercheranno quasi certamente di far giungere truppe dal fronte…”.
Trotskij rispose alle obiezioni di Kamenev e Zinoviev nel modo seguente:
“Questa elencazione è imponente, ma è solo un'elencazione. Se, in genere l'esercito è un riflesso della società, quando si verifica una scissione aperta, i due eserciti che ne derivano sono un riflesso dei due campi contrapposti. E l'esercito dei possidenti recava in sé il tarlo dell'isolamento e della disgregazione. "(L. Trotskij, Storia della Rivoluzione Russa, Ediz. Sugarco, p. 668).
In preda al panico, De Gaulle all’improvviso scomparve. Si recò in Germania dove fece segretamente visita al Generale Masseu, l’ uomo che comandava le truppe francesi di stanza nel Baden-Wurttenberg. Il contenuto preciso di queste conversazioni non fu mai rivelato, ma non ci vuole troppa immaginazione per capire cosa gli chiese: “Possiamo fare affidamento sull’ esercito?”. La risposta non si trova in nessun documento scritto, per ovvie ragioni. Comunque, il Times spedì un proprio corrispondente in Germania per intervistare i soldati francesi, la maggior parte dei quali erano giovani della classe operaia che adempivano al servizio di leva. Uno di quelli intervistati dal Times rispose così alla domanda se avrebbe sparato ai lavoratori: “Mai! Penso che i loro metodi possano sembrare un po’ bruschi, ma sono anch’io figlio di un lavoratore”.
Nel suo editoriale, il Times fece la domanda cruciale: “De Gaulle può usare l’esercito?” e si rispose da solo, affermando che avrebbe potuto usarlo una volta. In altre parole, un solo scontro cruento sarebbe stato sufficiente per mandare in pezzi l’ esercito. Questa era la valutazione dei più accordi strateghi del capitale internazionale all’epoca. Non c’è motivo di mettere in dubbio il loro parere.
La crisi dello Stato
Il 13 maggio una sezione del sindacato di polizia dichiarò che
“… l’ affermazione del Primo Ministro è un riconoscimento del fatto che gli studenti avevano ragione, viene del tutto sconfessato il comportamento delle forze di polizia che il governo stesso aveva ordinato. In queste circostanze, (De Gaulle) si meraviglia che un effettivo dialogo con gli studenti non sia stato cercato prima che questi spiacevoli confronti abbiano avuto luogo” (Le Monde, 15 maggio 1968).
Se questa era la situazione all’interno della polizia, l’ effetto della rivoluzione fra le fila dell’esercito sarebbe stato ancora più grande. Nonostante la carenza di informazione, si racconta di un fermento nelle forze armate, e perfino di un ammutinamento nella Marina. L’aereo Clemenceau, che doveva andare nel Pacifico per un test nucleare, improvvisamente cambiò rotta e torno indietro a Tolone senza spiegazione. Si parlò di un ammutinamento a bordo e numerosi marinai affermano di aver completamente perso il senso dell’ orientamento. (Le canard enchainé, 19 giugno, un resoconto più completo venne pubblicato su Action del 14 giugno ma fu censurato dalle autorità).
Secondo il celebre aforismo di Mao “il potere nasce dalla canna di un fucile”. Ma i fucili devono essere usati dai soldati, ed i soldati non vivono nel vuoto, ma sono influenzati dagli stati d’ animo delle masse. In qualunque società la polizia è più arretrata dell’ esercito. Tuttavia in Francia la polizia, per citare i titoli del Times (31 maggio) “ribolliva di malumore”.
“Sono totalmente insoddisfatti per il trattamento loro riservato dal governo” recita l’ articolo “ed il settore che si occupa delle mobilitazioni studentesche ha deliberatamente privato il governo di informazioni riguardanti i leader degli studenti a fronte di una richiesta di risarcimento delle spese sostenute non corrisposta”.
“…Né la polizia è stata ben impressionata dal comportamento del governo dopo che i disordini sono cominciati. “Temono di perdere il loro appoggio” ha detto un intervistato.
Tanta insoddisfazione è una delle ragioni dell’apparente inattività della polizia parigina negli ultimi giorni. La scorsa settimana uomini di servizio in diverse caserme locali si sono rifiutati di entrare svolgere la propria attività agli incroci e nelle piazze della capitale” (il Times del 31 maggio 1968).
Un volantino pubblicato dai membri del RIMECA (un reggimento di fanti meccanizzati) di stanza a Mutzig vicino Strasburgo sottolinea che settori dell’ esercito venivano influenzati dallo stato d’animo delle masse. Contiene il seguente passaggio:
“Come tutti i soldati di leva siamo constretti a stare nelle caserme. Siamo preparati per intervenire come forze della repressione. I lavoratori ed i giovani devono sapere che i soldati del (nostro, NdT) battaglione NON APRIRANNO MAI IL FUOCO CONTRO I LAVORATORI. Noi Comitati d’ Azione ci opponiamo strenuamente all’ accerchiamento delle fabbriche da parte dei soldati.
Domani o dopodomani siamo chiamati a circondare una fabbrica di armi che i lavoratori vogliono occupare.DOBBIAMO FRATERNIZZARE.
Soldati del contigente, formate i vostri comitati!” (Citato in Revolutionary rehearsals, p. 26).
La produzione di un tale volantino era chiaramente un fantastico esempio dei settori più rivoluzionari fra i soldati di leva. Tuttavia, nel mezzo di una rivoluzione di tali massicce proporzioni, è possibile mettere in dubbio che i soldati semplici sarebbero stati rapidamenti infettati dal bacillo della rivolta? Gli strateghi del capitale internazionale non hanno avuto dubbi in proposito. Non ne ebbero nemmeno i loro omologhi francesi.
Chi salvò De Gaulle?
Non furono né l’ esercito né la polizia (così demoralizzati che perfino il servizio informativo speciale, come abbiamo visto, rifiutava di collaborare con il governo contro gli studenti) che salvò la situazione per il capitalismo francese. Fu la condotta degli stalinisti e dei leader dei sindacati. Questa conclusione non è solo nostra, ma trova sostegno nella fonte più improbabile. Nell’introduzione all’edizione del 1968 dell’Enciclopedia Britannica, leggiamo quanto segue:
“De Gaulle sembrava incapace di affrontare la crisi o perfino di capirne l’origine. I comunisti e i leader sindacali, comunque, gli diedero uno spazio per respirare; si opposero ad ulteriori sollevazioni, evidentemente temendo che i loro militanti avrebbero appoggiato gli elementi più estremisti ed anarchici”.
Messo all’angolo, il Primo Ministro George Pompidou era d’accordo nel trattare con tutti. Quando la classe dominante rischia di perdere tutto quello che possiede, sarà sempre pronta a fare concessioni sostanziali. Per far sì che i lavoratori lasciassero le fabbriche, fecero di tutto per offrire ai leader sindacali delle concessioni che andavano ben al di là di quello che questi ultimi avevano richiesto nel periodo precedente: sarebbe stato aumentato il salario minimo, ridotto l’ orario di lavoro, abbassata l’ età pensionabile, e reintrodotto il diritto di organizzarsi. In un tentativo di calmare gli studenti, Pompidou accettò le dimissioni del ministro dell’istruzione
Sia il governo che i leader sindacali erano preoccupati per la vastità del movimento ed erano decisi a fermarlo. Il 27 maggio venne raggiunto un accordo fra i sindacati, le associazioni degli imprenditori ed il governo. Ma per i leader sindacali era un compito molto duro far accettare l’accordo ai lavoratori. Nonostante queste enormi concessioni, i lavoratori alla Renault e in altre grandi fabbriche rifiutarono di tornare al lavoro. Mi trovavo a Parigi durante questi eventi convulsi e ricordo che insieme a molte altre persone ero in un bar di Parigi a guardare alla televisione una riunione di massa all’interno dell’enorme fabbrica della Renault, dov’erano raccolti moltissimi lavoratori, alcuni seduti sulle gru e sui cavalletti, per ascoltare George Sègui – segretario generale della CGT – leggere ad alta voce la lista di quello che i padroni stavano offrendo: consistenti aumenti salariali, pensioni, la riduzione degli orari di lavoro e così via. Ma nel mezzo del suo discorso fu sommerso dai cori dei lavoratori: “Governo del popolo! Governo del popolo!”. Mi ricordo che non portò a termine il discorso.
In questa fase i lavoratori avevano sviluppato il senso del proprio potere. Avevano capito che avevano il coltello dalla parte del manico e non volevano cederlo. Alle 17:00, 30.000 fra studenti e lavoratori marciarono da Gobelins fino allo stadio di Charlety, dove organizzarono un incontro cui partecipò Pierre Mendès – France (esponente del partito Radicale, primo ministro tra il 1954 e il ‘55, poi passato al partito socialista negli anni sessanta, ndt) . Una manifestazione convocata dalla CGT portò oltre mezzo milione di lavoratori e studenti per le strade di Parigi. Ancora una volta l’obiettivo del sindacato e del partito comunista fu quello di fornire una valvola di sfogo al movimento, il cui controllo stava sfuggendo loro dalle mani.
L’iniziativa passa alla reazione
In una trasmissione radiofonica del 30 maggio, il Presidente De Gaulle proclamò lo scioglimento del Parlamento ed annunciò le elezioni si sarebbero svolte nei tempi previsti. George Pompidou sarebbe rimasto Primo Ministro. Fece anche allusione al fatto che si sarebbe fatto uso della forza per mantenere l’ordine, se necessario. Questo messaggio era destinato ai leader del sindacato e del Partito Comunista. Offriva loro l’allettante possibilità delle elezioni e futuri incarichi di ministro nei governi borghesi, ed al tempo stesso ammoniva che la borghesia non avrebbe ceduto il potere senza combattere.
Ci fu un rimpasto di governo e vennero annunciate elezioni per il 23 e 30 giugno. Nel frattempo De Gaulle tentò di mobilitare le proprie forze al di fuori del Parlamento. Alcune decine di migliaia di sostenitori del governo fecero un corteo da Place de la Concorde fino all’Etoile. Manifestazioni analoghe di sostegno al governo si svolsero un po’ in tutta la Francia. Ma un’occhiata veloce alle fotografie comparse sui giornali rivelavano subito la vera natura di queste manifestazioni: ex-sindaci con addosso la fascia tricolore, panciuti cittadini di mezza età, anziani pensionati, ed altre malconce cianfrusaglie della società.
Il semplice confronto tra queste immagini e la manifestazione di massa del proletariato di alcuni giorni prima era sufficiente per chiarire il vero rapporto di forza fra le classi. Tutto quello che era vivo, forte e vibrante nella società francese era dalla parte della rivoluzione, mentre tutto quello che era vecchio, morto e decadente stava dall’altra parte della barricata. Una bella spinta sarebbe stata sufficiente per far cadere tutto. Tutto quello di cui c’era bisogno era dare il colpo di grazia finale. Ma non venne mai sferrato. La mano forte del proletariato che deteneva il potere vacillò e cadde.
La classe lavoratrice non può rimanere sempre in uno stato di fibrillazione. Non può essere accesa e spenta come si fa con una lampadina. Nel momento in cui la classe si mobilita per cambiare la società, deve andare fino in fondo se non vuole perdere. Succede lo stesso in ogni sciopero. All’inizio i lavoratori sono entusiasti e vogliono partecipare a tutte le riunioni. Sono pronti a lottare e a fare sacrifici. Ma se lo sciopero si trascina senza vedere una via d’uscita, lo stato d’animo cambierà. Iniziando da gli elementi più deboli, si diffonderà la stanchezza. La partecipazione alle riunioni andrà calando e i lavoratori torneranno al lavoro.
I leader sindacali fecero un uso accorto delle concessioni loro date frettolosamente dai capitalisti, allo stesso modo in cui un uomo disperato getta la scialuppa da una nave che affonda. Il salario minimo venne alzato a tre franchi all’ora, i salari furono aumentati e ci furono altri miglioramenti. In assenza di qualunque altra prospettiva, molti lavoratori accettarono quello che i dirigenti sindacali presentavano come una vittoria. Il martedì, dopo il fine settimana di vacanza all’inizio di giugno, molti scioperi terinarono ed le maestranze tornarono al lavoro.
Il 1968 è stata una rivoluzione
Che cos’è una rivoluzione? Trotskij spiega che una rivoluzione è una situazione nella quale la massa, composta da uomini e donne solitamente apatici, inizia a partecipare attivamente alla vita della società, quando prendono coscienza della loro forza e si mobilitano per prendere il proprio destino nelle proprie mani. Questo è proprio l’essenza di una rivoluzione. Ed è quanto accaduto in Francia su vastissima scala nel 1968.
I lavoratori francesi hanno mostrato i muscoli, e sono diventati coscienti del grande potere nelle loro mani. In questa occasione vediamo l’enorme potere della classe lavoratrice nella società moderna: nessuna lampadina si accende, nessuna ruota gira e nessun telefono suona se i lavoratori non vogliono. Il maggio 1968 è stato la risposta finale a tutti i codardi e gli scettici che mettono in dubbio la capacità del proletariato di cambiare la società.
Il rapporto di forza tra le classi si esprimeva in questo contesto, non come un dato astratto meramente potenziale o una statistica, ma come un potere effettivo nelle strade e nelle fabbriche. In realtà il potere era nelle mani dei lavoratori, ma loro non lo sapevano. Tuttavia come ogni altro esercito la classe operaia ha bisogno di una direzione. E questa mancava nel maggio 1968. Coloro che avrebbero dovuto assolvere a questo compito – i dirigenti delle organizzazioni di massa della classe operaia, i sindacati ed il partito comunista – non contemplavano la possibilità di prendere il potere. La loro unica preoccupazione era di far finire lo sciopero il più velocemente possibile, riconsegnare il potere alla borghesia e ritornare alla “normalità”.
Uno sciopero generale è diverso da uno sciopero “normale” perché solleva il problema del potere. La posta in gioco non è questo o quell’aumento salariale ma chi deve governare la società. Nel vivo della lotta di quei giorni del maggio 1968 la coscienza dei lavoratori si sviluppò ad una velocità vertiginosa. Arrivarono a capire che questo non è uno sciopero qualunque per richieste economiche ma qualcosa di più grande. Divennero coscienti del potere nelle loro mani ed videro la debolezza di chi si riteneva rappresentasse il potere dello Stato. Tutto quello che occorreva era eleggere delegati in ogni luogo di lavoro e collegare i comitati di sciopero in ogni città e regione, culminando nella formazione di un comitato nazionale, che avrebbe preso il potere, buttando nel bidone della spazzatura il vecchio potere statale.
Ma niente di questo venne fatto, e l’enorme potenziale rivoluzionario del movimento fu dissipato, proprio come il vapore si disperde aria a meno che non venga concentrato in un pistone. Alla fine, i lavoratori ritornarono al lavoro e la classe dominante concentrò nuovamente il potere nelle proprie mani. Quando iniziò il riflusso del movimento, lo Stato iniziò iniziò a vendicarsi. Ci furono episodi violenti, in particolare l’11 giugno quando i feriti furono 400, 1500 gli arrestati ed un manifestante fu colpito dagli spari e morì a Montbèliard. Il giorno seguente, le manifestazioni vennero proibite in Francia. Il giorno dopo gli studenti furono cacciati dall’Odeon e due giorni dopo dalla Sorbona.
Ebbe quindi inizio le persecuzioni. Alla radio statale ed in tv – la ORTF – 102 giornalisti vennero licenziati per le attività svolte durante la rivoluzione. La polizia venne inviata nelle università di Nanterre e della Sorbona per controllare i tesserini degli studenti e non fece marcia indietro prima del 19 dicembre. Un pacchetto di misure di austerità venne approvato dal parlamento il 28 novembre. Lo stato che non aveva esitato a picchiare selvaggiamente gli studenti e gli scioperanti e adesso mostrava clemenza verso i fascisti e i membri del gruppo terroristico di estrema destra OAS. Mentre Cohn- Bendit veniva espulso dalla Francia, a George Bidault veniva concesso di farvi ritorno e Raoul Salan usciva di prigione.
I riformisti e i leader stalinisti furono puniti per la loro codardia quando non ebbero ministeriali gli incarichi nei quali ardentemente speravano. La campagna elettorale cominciò il 10 giugno. Al primo turno elettorale la federazione dei partiti di sinistra e i comunisti persero consensi. Al secondo turno la settimana successiva, i partiti della destra ottennero una maggioranza schiacciante. La sinistra perse 61 seggi e i comunisti 39. Pierre Mendés-France non fu rieletto a Grenoble. Il partito comunista, che nel 1968 era il principale partito della classe lavoratrice francese, iniziò il declino e fu alla fine superato dal partito socialista il quale, con solo il 4% dei voti, sembrava spacciato. Il sindacato di matrice comunista, la CGT, perse consensi a scapito della CFDT, che tenne una posizione più combattiva nel 1968.
Il meraviglioso movimento dei lavoratori francesi finì così per essere sconfitto. Ma le tradizioni del Maggio 1968 rimangono nella coscienza dei lavoratori della Francia e del mondo intero. Oggi, dopo un lungo periodo di boom economico, il sistema capitalista sta di nuovo entrando in una crisi nella quale tutte le contraddizioni che si sono andate andate accumulando negli ultimi 20 anni verranno alla ribalta. Grandi scontri fra le classi sono all’ordine del giorno in tutta Europa.
Non abbiamo tempo da sprecare per quei piccoli borghesi ex-rivoluzionari che parlano del 1968 in termini nostalgici e sentimentali come se fosse un episodio storico antico senza implicazioni concrete per il mondo in cui viviamo oggi. Prima o poi gli eventi del 1968 ricompariranno su una scala ancora più vasta. Quale Paese è il candidato più probabile per questo scenario? Potrà essere forse la Francia, ma potrebbe trattarsi anche dell’ Italia, della Grecia, del Portogallo, della Spagna o qualunque altro Paese, non solo in Europa. Desideriamo con forza tutto questo e ci stiamo lavorando. Facciamo ogni sforzo per preparare l’avanguardia perché quando ci sarà la prossima occasione rivoluzionaria sia quella buona. Ed in occasione di questo glorioso anniversario proletario diciamo: La Rivoluzione è morta. Lunga vita alla Rivoluzione!.
Londra, 1 maggio 2008
Source: FalceMartello