I Balcani tornano ancora al centro dell'attenzione internazionale davanti alla probabile secessione della regione del Kosovo dalla Serbia. Pubblichiamo a riguardo ampi stralci di un lungo articolo comparso in due puntate sul sito In Defence of Marxism.
La questione nazionale nei Balcani rimane ancora irrisolta, dopo 15 anni di conflitto e centinaia di migliaia di morti, feriti e profughi di guerra. Oggi è chiaro come l’idea che la moltiplicazione di stati borghesi etnicamente “puliti” fosse lontana dalla realtà e da una possibile soluzione di questo problema storico. Dopo un periodo di euforia iniziale rispetto alla nascita di nuove nazioni indipendenti, le rispettive classi dominanti stano scoprendo che ogni tipo di sviluppo all’interno del sistema capitalista sia impossibile senza pestare i piedi ai propri vicini.
La situazione attuale presenta una somiglianza incredibile con l’atmosfera esistente all’inizio del ventesimo secolo. Allora le contraddizioni create dal sistema capitalista portarono ad una serie di guerre balcaniche seguite dalla Prima guerra mondiale e ad un tentativo di porre la situazione sotto controllo attraverso la formazione di una Jugoslavia borghese sotto il controllo della corona serba.
La seconda guerra mondiale scatenò una serie di massacri e di operazioni di pulizia etnica senza precedenti che ebbero fine solo per mezzo di una rivoluzione sociale portata avanti dal movimento partigiano. Possiamo affermare che sotto il capitalismo i Balcani non hanno conosciuto alcuna pace, solo periodi di “conflitto congelato”. Questa descrizione rappresenta perfettamente il periodo attuale.
La Serbia è il pezzo centrale e più importante del puzzle balcanico. Circondata da stati più piccoli con una nutrita popolazione serba, la classe dominante di Belgrado ha sempre avuto grandi ambizioni ed ha sempre cercato di dominare i piccoli stati balcanici sulla base della sua superiore forza militare che scaturiva dal declino delle potenze imperiali in declino (Turchia ed Impero austro-ungarico).
Oggi, la Serbia rimane il paese più grande formatosi dalla divisione della Jugoslavia e, a livello potenziale, una potenza locale, se pensiamo alla popolazione serba espulsa dalla negli anni novanta dalla Krajina in Croazia, alla Repubblica Serba di Bosnia ed a metà della popolazione del Montenegro che continua ad orientarsi verso Belgrado. Infine, il Kosovo è abitato da circa 150mila serbi con altri 200mila profughi che vivono nella stessa Serbia.
Oggi, con la Russia di nuovo protagonista nell’arena politica e l’Unione europea che cerca di formulare una propria politica estera indipendente dall’alleato atlantico, mentre gli Stati uniti passano da un’avventura militare all’altra, la situazione nei Balcani si sta riscaldando prima ancora che si sia potuta raffreddare.
Dentro la Serbia
Il prodotto interno lordo in Serbia è cresciuto in media del 6,8% negli ultimi tre anni, dopo un periodo di crescita molto più lenta successivo ai bombardamenti della Nato ed al cambiamento di regime. Alcuni funzionari governativi parlano del paese come la “tigre dei Balcani” per descrivere il fenomeno.
Le generazioni più anziane, comunque, possono testimoniare quanto la crescita capitalista attuale sia diversa da quella basata sull’economia pianificata dopo la Seconda guerra mondiale. Oggi la crescita si basa sullo smantellamento e la svendita dello stato sociale e gli effetti del boom sono concentrati a limitate zone del paese e ad uno strato privilegiato della popolazione.
Non importa quale partito sia stato al governo dopo la caduta di Milosevic, una cosa non è mai cambiata dal 2000: il potere economico rimane nelle mani del gruppo di economisti chiamato “G-17 plus”, un gruppo di esperti costituitosi nel periodo di Milosevic e che si è trasformato in un partito politico dove i leaders hanno sacrificato le loro posizioni ben remunerate all’interno di varie multinazionali per lavorare a servizio dello stato ed “aiutare” il proprio paese in difficoltà.
Un modello di sviluppo di stretta osservanza neoliberale è stato seguito nell’ultimo paio d’anni. Il governo è orgoglioso del fatto che la Serbia, insieme alla Bulgaria, ha la tassa sui profitti più bassa dell’Europa (solo il 10%). Dopo la saturazione dei mercati dell’Europa dell’Est le multinazionali stanno trovando tesori nascosti in Serbia. Nel 2006 gli investimenti hanno raggiunto un livello record di investimenti esteri di 4,387 miliardi di dollari, una cifra che è pari alla metà del totale degli investimenti raggiunti nei cinque anni precedenti.
Molti degli investimenti sono diretti verso le privatizzazioni e le acquisizioni di aziende di sicuro rendimento nel settore bancario, delle telecomunicazioni, nel settore energetico e nell’industria del tabacco e degli alcolici.
I maggiori investitori provengono dall’Austria, dalla Germania, dalla Grecia e dalla Slovenia.
L’azienda elettrica statale, l’azienda statale degli idrocarburi e la compagnia aerea di bandiera Jat sono tra le aziende che saranno privatizzate nel futuro. Il processo sta entrando nella sua fase finale e tutte le principali imprese statali dovrebbero essere vendute entro la fine dell’anno prossimo.
Un “clima positivo per gli investimenti” è stato mantenuto attraverso una rigida politica monetaria. L’inflazione rimane ad una cifra (6,6%), il bilancio statale è in attivo mentre il 10% della popolazione vive al di sotto dei livelli di povertà. L’accesso ai servizi sociali è sempre più difficile, l’età pensionabile è stata prolungata e sono state introdotte le tasse scolastiche. Il tasso di disoccupazione ufficiale si attesta al 20,8% e da quando sono cominciate le privatizzazioni nel 2002 sono stati licenziati oltre 350mila lavoratori.
Il settore più colpito dalla ristrutturazione economica è quello della classe operaia che lavora nelle grandi aziende di stato. I nuovi posti di lavoro sono stati creati nel settore finanziario dei servizi e delle telecomunicazioni, per un totale di 60mila negli ultimi quattro anni, insufficienti a compensare i posti di lavoro persi in precedenza.
Molte città tradizionalmente industriali stanno diventando vere e proprie città fantasma. Il boom si concentra soprattutto a Belgrado e in qualche altra zona nel nord della Serbia che dispone di buone infrastrutture e di una buona posizione geografica. La disoccupazione nel Sudest della Serbia è tre volte più alta che a Belgrado. La percentuale di poveri in questa regione arriva al 23% mentre si attesta al 4% nella capitale.
Nonostante la portata di questi attacchi neoliberisti, fino ad ora non c’è una risposta organizzata da parte delle masse. Abbiamo assistito ad una stabilizzazione delle istituzioni mentre il numero di scioperi è ai livelli più bassi mai visti da anni e non si è sviluppata nessuna articolazione politica che rappresenti la maggioranza dei “perdenti” della transizione verso il capitalismo. Come si può spiegare tutto ciò?
La vecchia classe operaia si trova all’interno di un processo di dissoluzione. L’attuale ondata di privatizzazioni arriva dopo una decade turbolenta che ha visto un crollo dell’economia, una guerra e le sanzioni internazionali, che avevano già disorientato ed atomizzato la classe operaia. I sindacati nel settore privato praticamente non esistono ed una nuova generazione di lavoratori si trova ad essere impiegata in aziende di piccole dimensioni, al massimo di 50 dipendenti, separate le une dalle altre e sotto il controllo di piccoli capitalisti senza scrupoli formatisi negli anni della guerra. I lavoratori più anziani, che sono riusciti a conservare il proprio posto di lavoro dopo la ristrutturazione, sentono la pressione della massa di disoccupati. Non sono soddisfatti della loro condizione lavorativa ma è meglio che essere per la strada.
Il governo sta cercando di ottenere l’appoggio dell’opinione pubblica per il processo di privatizzazione emettendo azioni tipo voucher che vengono rilasciate ai lavoratori. Il programma sociale per coloro che sono espulsi dal processo produttivo prevede anche una liquidazione extra sulla base degli anni lavorati: chiunque si licenzi di propria volontà è calorosamente invitato a farlo. Bisogna fare un po’ di pulizia ed ai lavoratori sono promesse le briciole, a patto che non ostacolino il processo.
La Zastava, il gigante automobilistico con sede a Kragujevac, fornisce un buon esempio a riguardo. Lo scorso agosto il governo ha deciso di chiudere il programma sociale rivolto ai lavoratori della fabbrica dopo i bombardamenti della Nato nel 1999 che garantiva loro il posto di lavoro ed anche un salario minimo qualora non fossero più in produzione. A circa 4400 lavoratori sono stati offerti 250 euro per ogni anno di anzianità in cambio delle dimissioni. Il sindacato ha respinto l’offerta, le famiglie ed altri lavoratori di Kragujevac avevano cominciato delle proteste di solidarietà e per qualche giorno sembrava che potesse partire una mobilitazione significativa. Il governo ha risposto dichiarando che chiunque non avesse firmato la lettera di dimissioni entro il termine fissato sarebbe stato licenziato senza alcuna liquidazione. Il giorno dopo l’intera nazione ha assistito alla scena umiliante di una lunga fila di lavoratori che si spingevano a vicenda per non perdere il posto davanti alle porte ancora chiuse dell’ufficio che accettava le dimissioni volontarie.
Tutto l’orgoglio che i lavoratori provavano in una situazione unica al mondo, di essere i “padroni” delle fabbriche sotto “l’autogestione” titoista, è scomparso. Non è così raro che dopo l’esperienza di una privatizzazione fallita i lavoratori occupino la fabbrica e richiedano che la privatizzazione sia ripetuta, e questa volta sia fatta “sul serio”. Ecco fino a che punto si è spinto il processo.
Le esperienze amare degli ultimi 15 anni e la demoralizzazione generale ha portato ad uno scetticismo verso ogni tipo di proposta politica, la messa in questione della necessità di organizzarsi e la mancanza di fiducia nei confronti dell’azione collettiva. I lavoratori cercano soluzioni a livello individuale per riuscire a sfamare le loro famiglie. La parola “solidarietà” si sente raramente oggi in Serbia, in una guerra tutti contro tutti che rappresenta la vera faccia del capitalismo dove solo il più forte riesce a sopravvivere.
Le nuove infrastrutture non sono costruite a beneficio delle popolazione ma a favore degli interessi degli investitori stranieri. Si costruiscono autostrade a fianco di villaggi dove le strade non sono ancora asfaltate, il centro delle città viene trasformato in un luogo esclusivo con edifici in vetro ed acciaio mentre i quartieri operai rimangono con le infrastrutture che risalgono agli anni settanta. La natura dei capitali che stanno affluendo in Serbia è perlopiù parassitaria e speculativa. che succederà quando non ci sarà più nulla da vendere? Questa è la domanda scomoda a cui nessuno osa rispondere.
La crescita economica attuale non è basata sullo sviluppo delle forze produttive costruite durante i decenni di esistenza dell’economia pianificata, ma sulla distruzione delle fondamenta stesse dell’economia, il trasferimento di capitali al fuori del paese ed investimenti limitati che privilegiano settori di nicchia che possono essere trasformati in mucche da mungere da parte del capitale straniero. Se la crescita continua a questo ritmo, ci vorranno almeno sette anni alla Serbia per raggiungere lo stesso livello del Pil che aveva al momento dell’introduzione del capitalismo nel 1991.
La scena politica
Tuttavia c’è un settore della popolazione che sembra trarre beneficio dalla transizione. Le illusioni nel capitalismo sono probabilmente più diffuse tra i giovani. Giovani istruiti con padronanza delle lingue straniere trovano lavoro più facilmente che mai. Le aziende straniere riescono a trovare lavoratori altamente specializzati disposti a lavorare per poche centinaia di euro sulla base di una prospettiva di avanzamento di carriera.
Questo settore emergente è all’offensiva e trova una propria espressione politica nel Partito democratico liberale, una scissione dal principale partito riformista, il partito democratico (Ds) di Zoran Djindjic, il primo ministro che fu assassinato qualche anno fa. L’Ldp conduce una campagna molto aggressiva accusando il Ds di fare compromessi con i nazionalisti ed i settori legati al vecchio regime che non vogliono l’adesione della Serbia all’Ue. È entrato in parlamento attirando a sè i voti di votanti disillusi nei centri urbani.
A parte ciò, non c’è stata nessun cambiamento politico significativo nella scena politica serba negli ultimi anni. Il fatto più sorprendente è che ancora non esiste nessuna forza politica a sinistra del centro. Coro che hanno perso dalla transizione al capitalismo non hanno nessuno per cui votare. Il Partito democratico ha contatti con la socialdemocrazia europea ma rimane un partito di centro con un orientamento anti operaio.
Il Partito radicale serbo è riuscito a sfruttare questo vuoto per un certo periodo di tempo, con i suoi slogan anti-riforma e populisti, fino a quando è diventata la forza politica più moderata ed hanno operato una svolta moderata. Le contraddizioni esploderanno quando dovranno andare al governo. L’unico proposito è di assorbire l’insoddisfazione all’interno del paese e giocare il ruolo di minaccia ultranazionalista a favore della classe dominante serba nei suoi negoziati con l’Occidente. In assenza di un movimento dal basso, i partiti politici cambiano le coalizioni al vertice mentre i tratti essenziali del regime rimangono gli stessi. Il Partito democratico attualmente governa in una coalizione con “G17 Plus” e con il partito conservatore del primo ministro Vojislav Kostunica.
Dopo qualche anno di aspre battaglie per occupare le posizioni di potere prima che partisse il processo di privatizzazione, tutti sembrano essere soddisfatti dopo aver ottenuto il proprio pezzo di torta.
In questa atmosfera generale, l’offensiva ideologica da parte della destra che era solo una minaccia negli anni novanta è oggi divenuta la norma.
La Chiesa ortodossa sta occupando un posto importante all’interno dei mass media ed all’interno dello stato. Le è stato permesso di entrare nelle scuole e nell’Esercito. Quanto siano andate avanti le cose si vede dal fatto che la famiglia reale è rientrata in possesso di tutte le sue proprietà ed i suoi membri appaiono sui mass media come figure pubbliche importanti.
La storia del movimento partigiano e della Seconda guerra mondiale è stata completamente riscritta. A differenza di Zagabria, dove un settore di classe dominante sta incorporando il movimento partigiano nell’ideologia fondante della Croazia capitalista indipendente, la classe dominante serba ha deciso di cancellare completamente dai libri di storia questo capitolo.
I nomi associati al comunismo ed al movimento partigiano sono stati rimossi da tutte le istituzioni e dalle strade, sostituiti da nuovi monumenti ed è stato adottato un nuovo inno nazionale. Dal punto di vista culturale il paese è tornato indietro all’inizio del secolo scorso, quando la borghesia serba cercava di imporsi come potenza imperialista nella regione e fu premiata con il controllo sul nuovo stato jugoslavo dopo aver perso un quarto della sua popolazione nella Grande guerra. Si sta dunque preparando il terreno anche ideologico per una posizione da protagonista da parte dell’elite dominante serba sulla questione dello status del Kosovo.
Ciò che è in preparazione è anche un’enorme esplosione della classe operaia serba a un certo punto nel futuro. Hanno cercato di mettere il coperchio alla lotta di classe mentre aumenta la polarizzazione sociale, con la ricchezza che è distribuita in modo totalmente iniquo.
Se guardiamo alla Slovenia possiamo vedere il futuro della Serbia. Con lo sviluppo del capitalismo arriva anche il rafforzamento della classe operaia e quindi la lotta di classe. Lo sciopero in atto allo stabilimento della Ford di San Pietroburgo in Russia, dopo 12 anni di silenzio quasi totale della classe operaia russa, indica di cosa sia capace la classe operaia.
Lo scontro sul Kosovo
L’atmosfera per le strade di Belgrado è cambiata significativamente nel corso degli ultimi mesi. La linea dura del governo sebo sulla questione del Kosovo ha sorpreso molti, ma era piuttosto ingenuo credere che questi politici dell’era post-Milosevic potessero comportarsi in maniera diversa per quanto riguarda gli “interessi nazionali” Dopo tutto quando erano “l’opposizione democratica”, la maggior parte di loro non hanno mai criticato Milosevic riguardo la politica nei confronti delle altre ex repubbliche jugoslave, la loro “opposizione” era rivolta al fatto che l’economia non venisse privatizzata al ritmo desiderato dagli imperialisti.
Come se non fosse abbastanza aver rinunciato alla Macedonia ed alla regioni della Krajina in Bosnia ed in Croazia., Belgrado è stata premiata per aver rovesciato Milosevic ed aver aperto la sua economia al capitalismo internazionale con la perdita del Montenegro, ed ora viene chiesto di abbandonare anche ogni pretesa sul Kosovo. La classe dominante serba pensa di aver compiuto i propri “doveri internazionali” e la sola cosa che desidera è di avere una possibilità di giocare il proprio ruolo nell’area. Come un bambino che si sente ignorato dai genitori, troppo occupati ad accudire i fratellini più piccoli, Belgrado minaccia di andare su tutte le furie e la Russia è ben contenta di fornirgli un po’ di spazio.
Il ruolo della Russia
Per il fallimento di quelli che sembravano colloqui senza fine sullo status finale del Kosovo si incolpa l’incapacità di Belgrado e Pristina di raggiungere un accordo, ma questa è chiaramente una sciocchezza. Belgrado non sarebbe in grado di negoziare alcunché se non fosse per la Russia. E la classe dominante kosovara sarebbe annientata dall’esercito serbo se non fosse per la presenza delle truppe degli Stati uniti.
Gli Stati uniti stanno spingendo per l’indipendenza a qualsiasi costo. L’Unione europea segue la linea di Washington, dato che vuole utilizzare il pretesto di un Kosovo indipendente per prendere maggiore iniziativa riguardo la politica estera. Allo stesso tempo si trova in difficoltà con alcuni suoi membri (Spagna, Romania, Slovacchia) che hanno minoranze nazionali all’interno del proprio territorio e la Grecia che ha i propri interessi nella regione. Dall’altra parte la Russia si oppone fieramente all’indipendenza del Kosovo.
Mosca è in una situazione simile alla Serbia per molti aspetti. Dalla caduta della "cortina di ferro", nonostante la progressiva integrazione di Mosca nella comunità internazionale., gli Stati Uniti hanno mantenuto la loro politica in stile “guerra fredda” di espansione militare e di accerchiamento della Russia. L’allargamento ad est della Nato è qualcosa che la Russia non può più tollerare, con l’entrata di Georgia ed Ucraina e il progetto di uno scudo antimissile in Europa dell’Est. O la Russia alza la voce ora o deve restare zitta per sempre.
Inoltre Mosca ha già dimostrato in passato che prende la questione del Kosovo molto seriamente. Qualcuno si ricorderà l’episodio della presa dell’aeroporto di Pristina nell’estate del 1999. Parallelamente all’accordo di pace tra Belgrado e la Nato nel 1999, Milosevic stipulò un accordo con i russi, a porte chiuse. Le truppe russe presero d’assalto l’aeroporto approfittando della ritirata delle truppe serbe, impedendo così al comandante Nato Michael Jackson di accedere agli edifici dell’aeroporto. Fu un incidente molto serio con uno scontro a fuoco tra le truppe Nato e quelle russe. Mosca esigeva il controllo di un settore del Kosovo in totale autonomia. Eltsin alla fine fece un passo indietro e si accordò per porre il contingente russo sotto il comando Nato, cosa che fece infuriare Milosevic ed i generali russi.
L’intera area dei Balcani del sud è diventata un centro di interesse geopolitico sulla base della crescente importanza delle scorte di gas e petrolio. Sia la Russia sia le multinazionali del petrolio occidentali hanno progetti in cantiere per far passare i rispettivi oleodotti attraverso i Balcani.
Nel maggio scorso, i media serbi vicini all’occidente ed il Partito democratico hanno sollevato un gran polverone rispetto alle dichiarazioni rese da Tomislav Nikolic, leader del Partito radicale serbo che rispondeva alle accuse secondo cui il suo partito voleva trasformare la Serbia in una provincia russa. Nikolic aveva risposto che avrebbe preferito vedere una Serbia provincia russa piuttosto che colonia dell’Ue. Ciò è stato interpretato come un attacco alla sovranità della nazione da parte delle forze del passato più oscuro che vogliono frenare la modernizzazione della Serbia. Qualche mese dopo il leader del Partito democratico, e presidente della Serbia, Boris Tadic, ha rilasciato la seguente dichiarazione alla stampa ceca circa le conseguenze di una rottura da parte del Kosovo:
“Nel caso che i paesi dell’Ue sostengano l’indipendenza del Kosovo, avremo grandi problemi rispetto all’integrazione all’interno dell’Ue stessa. La conseguenza finale sarebbe una Serbia isolata o uno scenario dove avremo relazioni molto migliori con altri paesi del mondo.”
La classe dominante serba è divisa su questo tema. Una parte mantiene grandi aperture nei confronti della Russia mentre un’altra vuole giocare pesante sul Kosovo: insieme stanno cercando di giocare una partita di poker geopolitica nelle migliori tradizioni di Milosevic. Il problema per chi bara è che una strategia di bluff continui alla fine può far perdere tutto. Chiedete un parere a riguardo al governo Milosevic.
“Un Kosovo indipendente”
Sembra chiaro che il Kosovo giocherà il ruolo di Cipro nella regione nel futuro. I negoziati sono in un vicolo cieco, con le potenze imperialiste incapaci di raggiungere un compromesso e Belgrado pronta a far valere i propri diritti sulla regione, non importa cosa succeda. Alla fine l’indipendenza sarà probabilmente dichiarata da Pristina, seguita da un riconoscimento bilaterale da parte di Washington e dalla maggioranza dell’Ue ma senza una risoluzione del consiglio di sicurezza dell’Onu e l’opposizione da parte di Mosca e dei suoi alleati.
Un Kosovo indipendente sarebbe una fonte di instabilità costante ed un capro espiatorio per provocare il nazionalismo serbo quando sia necessario. Allo stesso tempo deve essere chiaro cosa si intende quando usiamo la definizione di "Kosovo indipendente". Uno Stato indipendente e totalmente sovrano non interessa a nessuno, tantomeno alla cricca dominante a Pristina.
Quello che il “piano Ahtisaari” offre alla popolazione kosovara è un “indipendenza vigilata” con un controllo esterno impersonificato da un “Rappresentante Civile Internazionale” che dovrebbe essere anche il rappresentante dell’Unione europea, con poteri politici simili a quello dell’Alto rappresentante dell’Ue in Bosnia-Erzegovina. In realtà equivarrebbe ad uno status di protettorato con una sovranità politica limitata e la presenza di truppe straniere a presidiare il territorio. Stiamo parlando di un altro satellite imperialista nella regione, un piccola provincia dell’ex Jugoslavia con una base americana di 360mila metri quadri.
Inoltre sarà difficile per il Kosovo sfuggire alla morsa serba. Per cercare di convincere Belgrado, il piano di Ahtisaari decentralizza totalmente il Kosovo ed offre alla Serbia di esercitare una propria influenza indiretta attraverso la minoranza serba nel nord della provincia dove Pristina non avrebbe alcuna autorità. Ma anche senza questo piano, un Kosovo impoverito sarebbe sempre dipendente dalla forza economica di Belgrado. Il 70% delle merci circolanti in Kosovo viene dalla Serbia così come gran parte della fornitura di energia elettrica. Belgrado ha reso già chiaro che imporrà sanzioni e renderà la vita impossibile se la provincia oserà dichiarare l’indipendenza.
Già il 37% dei kosovari vivono in povertà ed il 15% in estrema povertà. La disoccupazione arriva al 40-50% mentre il Pil pro capite è il più basso d’Europa. Il bilancio statale dipende in gran parte dagli aiuti internazionali (34%) e dalle rimesse degli albanesi che lavorano all’estero (20%).
Allo stesso tempo l’elite politica locale è l’archetipo delle classi dominanti mafiose create dalle guerre dell’ex-Jugoslavia. Il leader di partito più povero alle ultime elezioni aveva un reddito personale di 250mila euro l’anno, il più ricco possedeva una ricchezza stimata sui 420 milioni.
Non sorprende che i Kosovari non si siano recati alle urne lo scorso novembre per le elezioni parlamentari. L’affluenza è scesa dall’80% delle prime elezioni dopo la guerra al 43% di queste elezioni. Tutti i candidati condividevano la stessa richiesta di indipendenza dalla serbia e ad ottenere la maggioranza dei voti è stato Hashim “il serpente” Tachi, ex comandante dell’Uck sponsorizzato dalla Cia. Questi ipocriti portano avanti una campagna di odio nazionalista nei confronti di Belgrado mentre vogliono far diventare il Kosovo una colonia dell’imperialismo.
La situazione sociale del Kosovo è insostenibile, mentre i programmi dei partiti esistenti non corrispondono alle richieste delle masse. L’insoddisfazione dilagante ha portato una certa popolarità ad un’organizzazione chiamata “Autodeterminazione” (Vetenvedosje). Guidata dall’ex leader studentesco Albin Kurti, questo gruppo vuole l’indipendenza senza condizioni ed il rifiuto delle trattative con la Serbia mentre allo stesso tempo utilizza una forte retorica antimperialista, insieme a rivendicazioni di difesa dei servizi sociali e contro la corruzione.
La vera natura dell’amministrazione straniera è stata rivelata lo scorso febbraio quando le forze dell’Onu hanno ammazzato due manifestanti durante un corteo organizzato da Kurti che è stato subito arrestato. Durante il processo Kurti ha affermato correttamente che il piano Ahtisaari porterà solo nuovi conflitti ed un aumento della criminalità in Kosovo. Purtroppo quello che Kurti non comprende è un Kosovo indipendente all’interno del capitalismo è un sogno, siano presenti o meno gli eserciti imperialisti
Lo slogan dell’autodeterminazione
La richiesta di “autodeterminazione” rispetto al Kosovo deve essere posta all’interno dell’attuale contesto storico. L’autodeterminazione non è una rivendicazione da proporre al di fuori del tempo e dello spazio, ma deve essere considerata sulla base del contributo che fornisce all’avanzamento della lotta di classe. La divisione della Jugoslavia è connessa interamente con la reintroduzione delle relazioni sociali capitaliste nella regione e al rafforzamento delle forze politiche filocapitaliste in ciascuna repubblica.
Come il caso della Serbia illustra, ha ingabbiato la classe operaia che non si è ancora ripresa da una sconfitta storica. Non si capisce perché in Kosovo dovrebbe andare diversamente. La dichiarazione di indipendenza offrirebbe alla classe dominante del luogo uno spazio maggiore per continuare le privatizzazioni e la svendita del paese e rafforzerebbe la posizione dell’imperialismo nella regione.
I marxisti all’interno della Serbia devono prima di tutto denunciare la politica della borghesia nazionale con le sue mire sui territori a sud del paese. Allo stesso tempo non possiamo fomentare le illusioni diffuse dall’imperialismo e dai suoi servi a Pristina, che un Kosovo indipendente porterebbe la libertà alle masse albanesi.
L’indipendenza del Kosovo non solo non servirebbe a risolvere la questione nazionale albanese ma renderebbe ancora più complicati i conflitti nazionali già esistenti nei Balcani. Cosa dovrebbero fare i marxisti dopo la dichiarazione di indipendenza del Kosovo, rivendicare il diritto di autodeterminazione per i serbi del Kosovo? E come la mettiamo con i serbi che vivono in Bosnia?
I negoziati per lo status del Kosovo hanno aperto una crisi in Bosnia Erzegovina di proporzioni mai viste dalla fine della guerra nel 1995. Anche i serbo-bosniaci si uniscono al grido del “diritto all’autodeterminazione" ogni volta che vedono la loro autonomia a rischio a causa delle tendenze centraliste adottate dall’Ue nel paese. La possibilità di una riunificazione della Repubblica Serba di Bosnia con la Serbia, su cui Belgrado insiste come compensazione per la perita del Kosovo, farebbe rientrare in gioco la Croazia e schiaccerebbe i musulmani bosniaci ancora nel mezzo. Un Kosovo indipendente porrebbe in questione anche lo status della popolazione albanese della Macedonia, e poi c’è la minoranza albanese nella valle di Presevo nel sud della Serbia che era già stata protagonista di un’insurrezione nel 2001 come conseguenza della guerra in Kosovo e della crisi in Macedonia. E la lista potrebbe continuare…
La situazione che stiamo affrontando non è nuova. Come abbiamo spiegato prima per molti aspetti la regione è tornata ad una situazione simile al 1913. Per fortuna i Balcani hanno una ricca tradizione socialista su cui possiamo fare riferimento. Ecco come affrontavano la questione i socialisti quasi cento anni fa:
“Sulla base del suo ruolo di guardiano e dell’influenza preponderante della diplomazia europea, lo strumento dell’espansione politica del capitalismo europeo, relazioni nazionali e teritoriali sono state create all’interno del retroterra storico dell’Europa sudorientale, e specialmente nella penisola balcanica, che ostacolano lo sviluppo economico e sociale dei popoli e si oppongono nella maniera più aspra ai loro interessi e bisogni. Da queste contraddizioni nascono tutte le crisi e gli avvenimenti che servono come pretesto alla diplomazia europea per perseguire la loro politica reazionaria di interferenza e di conquista. Tutte le forze progressiste della nazione devono combattere per liberarsi dai particolarismi… dai confini che dividono frequentemente i popoli che parlano la stessa lingua, che condividono la stessa cultura o le regioni che sono economicamente e politicamente interdipendenti… Riconoscendo la necessità e la legittimità delle aspirazioni delle nazioni dell’Europa sudorientale, la Prima conferenza socialdemocratica dei Balcani assume la posizione che possono essere realizzate solo unificando tutte le loro risorse economiche, abolendo i confini costruiti artificialmente e consentendo così di vivere insieme in una situazione di scambio reciproco e di difesa unitaria contro il pericolo comune.” (Risoluzione finale della Prima Conferenza socialdemocratica dei Balcani, 1910)
Questa piattaforma fu poi concretizzata nell’idea di una Federazione socialista dei Balcani come unica risposta possibile alle differenze etniche ed all’arretratezza economica della regione. Oggi questo slogan è più concreto che mai.
Il recente movimento in Slovenia ci indica quale strada prendere. In una dimostrazione di forza da parte della classe lavoratrice, 70mila lavoratori e studenti sono scesi in piazza a Lubiana. Fra loro c’era gente di tutte le nazionalità che formavano la Jugoslavia, tutti uniti in difesa dei propri diritti.
Quando vedremo le stesse scene per le strade di Belgrado, Pristina, Skopje, Zagabria o Sarajevo guarderemo alla situazione attuale con un sorriso perché sapremo che la lotta di classe è tornata sulla scena. Siamo sicuri che allora non sprecheremo tempo visti tutti i conti che ci sono ancora da regolare con la borghesia e l'imperialismo.
17 dicembre 2007