L’area dell’euro costituisce oggi uno dei punti più critici nella crisi mondiale del capitalismo. Su scala mondiale la crisi è ben lontana dall’essere risolta, nonostante sia in corso una anemica ripresina economica negli Usa. Le politiche messe in atto dalla borghesia su scala mondiale hanno solo tamponato la crisi, ma a costo di aprire nuove contraddizioni la cui gestione crea ad ogni passo problemi nuovi.
I dirigenti della borghesia, politici e “tecnici”, si aggirano da una proposta all’altra, e le burocrazie riformiste si accodano, se possibile ancora più smarrite di fronte a una crisi della quale non possono né vogliono capire la reale natura.
La globalizzazione entra in crisi
Secondo uno studio commissionato dal Financial Times, il volume dei flussi finanziari internazionali sarebbe tutt’ora (fine 2013) inferiore del 70 per cento rispetto ai livelli precedenti alla crisi. Il commercio mondiale, che negli anni d’oro del boom cresceva a ritmi prossimi al 10 per cento annuo, e anche superiori, è cresciuto meno del 3 per cento nel 2013. L’estrema facilità nella circolazione di capitali e di merci è stato uno degli aspetti centrali nella crescita economica degli scorsi decenni. L’integrazione sempre più stretta dei mercati mondiali, l’enorme sviluppo della divisione mondiale del lavoro, sono stati lo strumento attraverso cui il capitalismo ha parzialmente superato i limiti ristretti dello Stato nazionale, così come l’esplosione del debito e la massiccia creazione di capitale fittizio su scala mondiale ha nascosto temporaneamente la sovrapproduzione.
Oggi entrambi questi meccanismi si sono inceppati, in un certo senso la globalizzazione sta riavvolgendo il suo film. Il mercato dei capitali si sta frammentando su scala nazionale, e questo è particolarmente vero nell’Unione europea, con le banche che tornano a concentrarsi sui propri mercati domestici.
Anche a livello industriale si inizia a parlare di un fenomeno di reshoring, ossia di inversione di marcia delle delocalizzazioni con il rientro di parte delle produzioni verso le case madri. Dopo decenni nei quali la parola d’ordine era esportare le industrie, in tutti i principali paesi si pongono obiettivi di innalzamento della produzione industriale domestica. L’Unione europea, ad esempio, sta discutendo l’obiettivo di portare la produzione industriale dal 16 al 20 per cento del Pil, ossia una crescita relativa di un quarto, entro il 2020.
Persino la rete, mezzo di produzione, bene di consumo e di scambio, nato e cresciuto direttamente su scala globale, rischia un processo di frantumazione generato dalla scontro economico e politico sul suo controllo e la sua struttura, tanto che Angela Merkel propone lo sviluppo di una internet europea per tutelarsi dal dominio Usa.
La crisi ha messo impietosamente a nudo la realtà: nonostante tutte le chiacchiere sul privato, la concorrenza e il libero mercato, il sistema non sta in piedi senza il sostegno decisivo dello Stato.
Dopo la crisi del 1929 il diffondersi del protezionismo fu la causa principale dell’avvitarsi della crisi. Un processo simile oggi comporterebbe sconvolgimenti ancora maggiori ed è proprio per questo che la classe dominante si affanna da un vertice all’altro nel tentativo di trovare “soluzioni condivise” e “politiche comuni” che scongiurino il rischio di una precipitazione analoga.
Tutta la storia del XX secolo dimostra come le forze produttive sviluppate dal capitalismo abbiano definitivamente superato non solo i confini della proprietà privata dei mezzi di produzione, ma anche quelli altrettanto ristretti degli Stati nazionali. Nessun paese può sottrarsi al dominio del mercato mondiale in un sistema economico nel quale ormai merci e mezzi di produzione, particolarmente nei settori più avanzati, nascono e si sviluppano fin dal principio sulla base di una divisione mondiale del lavoro dalla quale è impossibile recedere se non al prezzo di un cataclisma economico. Da questo punti di vista gli Stati nazionali e in particolare quelli europei sono altrettanto superati e ridicoli degli staterelli nei quali erano divise l’Italia o la Germania prima delle rispettive unificazioni. Ma qui la borghesia si trova di fronte a una contraddizione insolubile sulle basi del suo sistema.
Nel tentativo di superare questi ostacoli intrinseci al sistema, la classe dominante si è spinta in un certo senso oltre i propri limiti e tornare indietro significa avviare dei processi dagli esiti imprevedibili e catastrofici.
Ma non è possibile far girare indietro la ruota della storia, liberare il sistema dagli “eccessi” degli ultimi decenni e tornare ai “bei vecchi tempi” del dopoguerra, a un presunto capitalismo produttivo, sano ed equilibrato, basato sull’economia reale e su relazioni commerciali relativemente stabili. Al contrario la crisi della globalizzazione preannuncia convulsioni gigantesche che lacereranno ancora di più i rapporti internazionali, economici e politici.
La crisi nell’eurozona
Queste premesse ci servono a ricordare che la crisi dell’Europa è solo una faccia della crisi mondiale del sistema capitalista. Tuttavia dire crisi mondiale non significa che in ogni paese, nello stesso momento e nello stesso modo si verificano gli stessi processi.
La creazione dell’Euro era stata presentata come la carta vincente che avrebbe garantito maggiore ricchezza, integrazione e convergenza delle economie europee, una moneta forte e credibile che avrebbe permesso credito a basso costo, impedito il ritorno dell’inflazione che aveva colpito duramente i paesi più deboli durante le crisi degli anni ’70, ecc.
Oggi tutte queste illusioni si sono tramutate nel loro esatto contrario. L’euro non è la causa della crisi, ma la rigidità imposta dalla sua stessa esistenza ha l’effetto di esacerbare le divisioni in Europa. Le diseguaglianze diventano un abisso tra ricchi e poveri, il credito ristagna, da strumento di salvezza la moneta unica si è trasformata in una pietra al collo.
Qui ha radice la profonda divisione di interessi e prospettive che si allarga in Europa e che ha dirette ripercussioni politiche, oltre che economiche.
Smantellare l’euro oggi significherebbe un processo catastrofico le cui conseguenze a livello mondiale sarebbero imprevedibili. Basti pensare ai debiti pubblici da riconvertire, ai rischi di guerra valutaria e commerciale che ne deriverebbero, allo sconvolgimento dei flussi finanziari, commerciali, produttivi. Nei momenti più critici della crisi dei debiti sovrani, nel 2011 e ancor più nel 2012, la classe dominante ha guardato in questo abisso con terrore e se ne è ritratta. Il governatore della Bce Draghi ha dichiarato che sarebbe stato impiegato “qualsiasi mezzo” per impedire il crollo dei bilanci pubblici, e con vari accorgimenti la crisi è stata temporaneamente congelata.
Dato che abbassare i tassi d’interesse non sortisce quasi alcun effetto pratico, Draghi ha fatto il possibile per aggirare i divieti imposti dallo statuto della Bce (che le impedisce di sostenere gli Stati acquistandone direttamente i titoli), con vari programmi di acquisto indiretto, ossia finanziando lautamente le banche affinché queste a loro volta garantissero la sottoscrizione dei debiti pubblici.
La portata dell’operazione non è secondaria, se si pensa che solo per l’Italia sono stati messi a disposizione fino a un massimo di 270 miliardi di euro per queste operazioni (al momento la cifra coperta si aggira tra i 230 e i 240 miliardi). Inoltre Draghi ha fatto approvare il programma delle cosiddette Omt (Outright monetary transactions) che permetterebbe, sotto certe condizioni, alla Bce di acquistare direttamente titoli di Stato di paesi in difficoltà, senza porre a priori un limite a tali acquisti. Il meccanismo delle Omt non è mai stato concretamente attivato, anche se la minaccia ha costituito un parziale deterrente alla speculazione contro i debiti sovrani.
La precarietà di questo stallo è però evidente a tutti e da qui si snodano due prospettive divergenti che attraversano la classe dominante in ogni paese, in ognuno dei suoi partiti e correnti.
Già nel 2011 il rappresentante tedesco nella Bce, Jürgen Stark, aveva rassegnato le dimissioni in opposizione al piano di riacquisto di titoli pubblici da parte della stessa Bce. Di nuovo, nel 2012 Jens Weidemann ha ribadito l’opposizione della Bundesbank alle proposte “non convenzionali” di Draghi, sostenute però da tutti gli altri componenti del direttorio della Banca centrale europea.
Il punto centrale dello scontro è sempre lo stesso: è giusto che vi siano forme di gestione comune dei debiti pubblici europei, e più in generale delle crisi finanziarie (comprese le possibili crisi bancarie) o ciascun paese deve affrontarle con le proprie forze?
La discussione sulla celebratissima “unione bancaria” che avrebbe dovuto garantire la gestione a livello europeo delle crisi bancarie, rompendo il legame tra crisi delle banche e crisi dei debiti sovrani, si è dimostrata l’ennesima bolla di sapone.
Svanita l’idea di un serio fondo comunitario che coprisse le possibili perdite (ammesso e non concesso che fosse un’idea realistica), l’accordo raggiunto a dicembre stabilisce che le perdite ricadranno, nell’ordine su azionisti, obbligazionisti, correntisti (sopra i 100mila euro). Una posizione apparentemente rigida (paga chi è responsabile) che se applicata a una crisi di grosse dimensioni significherebbe di fatto aprire le porte a un nuovo crack stile Lehmann. I fondi per intervenire, finanziati da quote fornite dalle stesse banche, rimarranno su base nazionale, sia pure con un “ombrello” fornito dall’Europa. Poi, nel corso dei prossimi dieci anni (!) si arriverà a un fondo comune che sarà pienamente operativo nel 2026 (!!) con la “stratosferica” dotazione di 55 miliardi di euro, sufficienti forse a tamponare la crisi di una o due banche di medie dimensioni.
Non sorprende quindi il commento del Financial Times (5 gennaio), a firma Wolfgang Münchau: “La crisi dell’euro non è finita, ma c’è uno spostamento importante. Il dibattito sulle scelte politiche si è concluso. La decisione di non costruire una protezione comune per le banche europee ha chiuso l’ultima finestra verso una qualsiasi forma di mutualizzazione come strumento per risolvere la crisi. Tutti gli aggiustamenti si svolgeranno attraverso l’austerità e la deflazione nei paesi periferici. La gran parte di questo aggiustamento è ancora da compiere. Inoltre si è deciso che i debiti verranno ridotti solo pagandoli: non con l’inflazione, col default o condonandoli.
Se si guarda a tutto questo sulla base di una conoscenza della storia economica, si tratta di un insieme di scelte a dir poco terrificanti. Le uniche innovazioni che ammorbidiscono questa asperità sono i due paracadute ad oggi esistenti: il Fondo europeo di stabilità e il programma Omt che permette alla Bce di acquistare il debito degli Stati in difficoltà, entrambi mai messi alla prova.”
Lo scontro tra “responsabilità nazionale” e “soluzioni comunitarie” continua, quindi, in un alternarsi di colpi che dietro la facciata ipocrita di concordia “europea” vede di volta in volta l’uno o l’altro schieramento portare i propri colpi, senza che si arrivi al prevalere dell’uno o dell’altro.
Recentemente la Bundesbank si è spinta fino a dichiarare che in caso di crisi profonde è opportuno imporre una pesante tassa patrimoniale. “I paesi a rischio bancarotta devono ricavare le risorse dalla ricchezza privata dei loro cittadini attraverso una patrimoniale una tantum prima di chiedere aiuti ad altri Stati (…) una patrimoniale corrisponde al principio della responsabilità nazionale, secondo la quale i contribuenti sono responsabili degli impegni assunti dal loro governo prima che richieda la solidarietà di altri Stati”. Francoforte specifica che si tratta di misure rischiose ed estreme, da assumersi solo in casi eccezionali, ad esempio per evitare il rischio di insolvenza sul debito pubblico, e conclude: “Non fa parte degli scopi della politica monetaria europea assicurare la solvibilità dei sistemi bancari nazionali o dei governi ed essa non può sostituire i necessari aggiustamenti economici e pulizia dei bilanci.” (Reuters, 27 gennaio).
La Banca centrale tedesca, quindi, dichiara guerra ai ricchi… degli altri paesi. Uno schiaffo in faccia e anche una minaccia neanche velata: chi rischia il fallimento si arrangi, e i capitali buoni li risucchieremo noi in Germania.
La crisi di Cipro: “Un euro non ha lo stesso valore ovunque”
Il precedente della crisi cipriota è illuminante. Il crollo delle banche cipriote è stato affrontato con misure di questo genere (in questo caso meno indigeste in quanto si riteneva che avrebbero colpito in primo luogo i capitali esportati dai magnati russi in quel paradiso fiscale). Al riguardo rimane valido quanto scrivevamo al riguardo un anno fa: “Il “salvataggio” di Cipro annuncia una nuova tappa nella crisi. Il crollo delle banche in un paese che pesa per lo 0,2 per cento nell’economia dell’eurozona ha generato conseguenze di vasta portata. In primo luogo è stata messa in discussione la “sacralità” dei depositi bancari. Non inganni il fatto che alla fine sono stati tutelati i correntisti al di sotto dei 100mila euro: sostenendo la prima versione del piano (quella appunto che andava a prelevare anche dai piccoli depositanti) la Commissione europea ha mostrato fino a che punto è disposta a spingersi, manifestando una divisione aperta col Fmi. Quello che ieri si è ipotizzato per Cipro, domani potrebbe diventare realtà in crisi di dimensioni maggiori.
Secondo. Per la prima volta sono state introdotte restrizioni ai movimenti di capitale all’interno della zona euro. Questo non solo avrà conseguenze per l’economia cipriota, danneggiando il commercio estero e in generale il funzionamento delle aziende (e sono già partiti gli scandali per gli inevitabili favoritismi nella gestione dei movimenti di capitale). Si tratta di una svolta di proporzioni epocali. Scrive Martin Wolf sul Financial Times (riprodotto su Il Sole 24 ore del 27 marzo): ‘… un euro non ha lo stesso valore ovunque. (…) Quello che è successo a Cipro mostra chiaramente che il valore di un euro di passività bancarie dipende dalla solvibilità della banca stessa e dalla solvibilità del Governo che sta dietro a quella banca. Se tanto la banca quanto lo Stato sono insolventi, i prestatori hanno buone possibilità non solo di perdere una grossa fetta dei loro soldi, ma anche di scoprire che il resto è congelato sotto la cappa dei controlli di capitale’.” (Effetto domino. La crisi cipriota e le sue conseguenze).
“Europa e democrazia”
I settori prevalenti della borghesia in Europa continuano ad aggrapparsi all’euro e all’Unione, soprattutto perché l’alternativa appare (ed è) un salto nel vuoto. “Europa e democrazia” rimangono quindi, per ora, le due parole d’ordine attorno alle quali cercare di mantenere il consenso. Si lanciano allarmi per la crescita delle “forze populiste antieuropee di destra e di sinistra”, si sprecano i paragoni col 1914, sottolineando come solo l’integrazione europea abbia garantito la pace e la cooperazione, e via di seguito, fino alla nausea.
Tuttavia “Europa e democrazia”, in un contesto di crisi e di tagli selvaggi, sono decisamente parole screditate, sono cattiva moneta tanto quanto la carta straccia accumulata nei bilanci delle banche e degli Stati.
Per spacciare questa pessima moneta la borghesia quindi chiede e ottiene la entusiastica collaborazione delle forze “riformiste” e sventola l’illusione di una diversa politica economica e di una democratizzazione dell’Ue.
Non stupisca quindi se cresce a livello politico la critica nei confronti della gestione della troika dei diversi “piani di aggiustamento”. È significativo che questa critica sia trasversale agli schieramenti politici. Recentemente è stato presentato un Rapporto indagine sull’attività il ruolo e le operazioni della Troika per quanto riguarda i paesi dell’eurozona. Presentato in accordo fra socialisti e popolari giunge alla conclusione che la Troika che ha dettato i programmi di “salvataggio” per Grecia, Portogallo, Irlanda, Cipro deve essere sostituita da un vero e proprio sistema di governo europeo sottoposto al Parlamento europeo. L’austriaco Hannes Swoboda, presidente dei parlamentari europei socialisti e democratici (tra cui il Pd) si spinge ad affermare che “smantellare la troika durante la presidenza greca dell’Ue sarebbe una vera vittoria”.
Nel suddetto Rapporto si propone di estromettere il Fmi dalla troika e sostituirlo con un “Fondo monetario europeo nel quadro giuridico comunitario”.
Sicuramente gioca in queste proposte il timore di pesanti perdite elettorali per i partiti che hanno sostenuto l’austerità, sulla scia di quanto accaduto al Pasok in Grecia, al Psoe e al Pp in Spagna, a Hollande in Francia, ecc. Ma sarebbe riduttivo spiegare tali prese di posizione solo con i timori per le carriere elettorali di qualche politicante. Sono invece la manifestazione della profonda divisione che attraversa la classe dominante di fronte a una crisi della quale gli esiti, a sette anni dalle sue prime manifestazioni, sono ancora avvolti in una paurosa incertezza.
Sbaglia di grosso, quindi, chi tenta di leggere lo scontro politico in Europa sulla base di categorie quali “europeisti/progressisti” e “nazionalisti/conservatori” o addirittura fascisti. Si tratta invece di una divisione della classe dominante, divisione di interessi e di prospettiva.
L’integrazione europea e le sue contraddizioni
Il mercato unico e la creazione dell’euro sono stati strumenti potenti della concentrazione e centralizzazione del capitale, dei quali l’industria tedesca ha beneficiato grandemente. Le statistiche mostrano il decollo dell’attivo commerciale tedesco precisamente a partire dal 1999, anno di introduzione della moneta unica. Tra il 2006 e il 2011 l’Unione europea ha visto contrarsi la propria quota del commercio mondiale (escluso il commercio interno alla stessa Ue) dal 17,3 al 15,5 per cento, ma la quota relativa della Germania è cresciuta.
Gli obiettivi europei di aumento della produzione industriale domestica sono misurati innanzitutto sulle necessità della Germania, e sono legati alla prospettiva di rafforzare la sua presenza e competitività sui mercati mondiali.
Ma qui nasce la contraddizione: la moneta unica oggi affossa la stessa base di partenza dell’industria tedesca, che è costituita dal mercato interno dell’Unione. Da qui la divisione ai vertici della classe dominante, anche in Germania, tra chi sostiene la necessità di spingere ulteriormente in avanti il processo di integrazione e chi pensa a invertire la marcia, magari ritornando ai vecchi progetti di un euro ristretto alla sola area del nord Europa. Nonostante il basso voto raccolto alle elezioni politiche (4,7 per cento) la nascita del partito Afd (Alternativ für Deutschland – Alternativa per la Germania) è un indicatore di queste divisioni. Afd è un partito conservatore di destra, ma non nasce da qualche estremista nazionalista, o da elementi marginali; al contrario, raccoglie il sostegno di settori forti della borghesia industriale, in particolare in Baviera, e vede fra i suoi promotori l’ex presidente degli industriali tedeschi Hans Olaf Henkel.
La rigidità delle scelte di Angela Merkel riflette anche lo stallo fra queste spinte opposte.
Le contraddizioni non riguardano solo l’industria e gli sbocchi commerciali. È l’intera posizione della Germania e dell’Europa nel contesto mondiale ad aprire continuamente nuovi dilemmi insolubili.
L’Europa non può essere una unità economica chiusa in se stessa. Gli antagonismi si sviluppano su scala mondiale e solo su tale scala possono essere compresi.
Unificare l’Europa su basi capitalistiche non sarebbe affatto un’impresa pacifica e priva di conseguenze nei rapporti internazionali: significherebbe innanzitutto attrezzarsi per farne una base di scontro con le principali potenze mondiali, Usa e Cina in primo luogo, per disputare l’egemonia su vaste aree del mondo.
Nel dopoguerra gli Usa favorirono, per ragioni politiche ed economiche, la nascita della Cee. Tre condizioni garantivano che tale processo non avrebbe costituito una minaccia alla loro egemonia mondiale, essendone invece una parte integrante. La prima era la divisione dell’Europa tra i due blocchi, per cui lo sviluppo economico dell’Europa occidentale era indispensabile per fronteggiare l’Unione Sovietica (lo stesso valeva per il Giappone o la Corea del Sud); la seconda era che la Germania era a sua volta divisa, “gigante economico e nano politico”, come si usava dire fino a un quarto di secolo fa. Lo scontro fra Usa e Urss e l’inserimento nella Nato, oltre alla presenza militare diretta degli Usa, limitavano al minimo qualsiasi velleità dei paesi europei di condurre una propria politica indipendente.
Ma negli ultimi due decenni le cose sono cambiate. La Germania si è riunificata, ha accresciuto di molto la propria base industriale e finanziaria e ha ricreato le proprie sfere d’influenza nei Balcani e nell’Europa centro-orientale. La scomparsa del blocco sovietico ha allargato le divergenze di politica estera fra Europa e Usa e all’interno della stessa Europa. Basti ricordare come nel 2003 l’amministrazione Bush-Rumsfeld fece appello alla “nuova Europa” (i paesi dell’est che si stavano inserendo nella Nato) contro la “vecchia Europa”, Francia e Germania, riluttante a intervenire nella guerra contro l’Iraq. Altre profonde divisioni si manifestano oggi fra Usa e Germania in relazione alla crisi Ucraina. Sulla Siria e sulla Libia, la Francia ha tentato di perseguire i propri fini senza e contro la posizione tedesca.
La crisi acuisce nuovamente le contraddizioni nazionali in Europa. I pacchetti di “aiuto” alla Grecia non comportano solamente la riduzione in miseria della gran maggioranza dei lavoratori e dei pensionati. Imponendo privatizzazioni e ricapitalizzazioni di banche portano direttamente tali aziende ad essere preda dei capitali stranieri, così come la piccola zona di influenza che il capitale greco aveva nei Balcani (erano circa duemila le filiali di banche greche nella regione).
La natura dell’Unione europea
Nonostante i fiumi di belle parole, non può esistere una Unione europea democratica, progressista, attenta all’ambiente e alla giustizia sociale. L’utopia di una Europa unita sotto il capitalismo, se mai dovesse prendere corpo, si materializzerebbe in una ulteriore concentrazione di forze, a livello economico e politico, da parte della classe dominante. Sarebbe uno strumento mille volte più potente degli attuali Stati nazionali per la difesa degli interessi del capitale, per attaccare ulteriormente le condizioni di lavoro, i diritti democratici, lo Stato sociale, per condurre una politica antioperaia all’interno e aggressiva all’estero, nel tentativo di fronteggiare giganteschi concorrenti nella lotta per conquistare mercati, materie prime, posizioni strategiche a livello mondiale.
In questo senso si può dire che il programma di una ulteriore integrazione europea, o addirittura di una vera e propria federazione, corrisponderebbe agli interessi dei settori più forti del capitale europeo, e in primo luogo tedesco. In fin dei conti questo spiega la posizione delle burocrazie sindacali e riformiste, la cui caratteristica fondamentale è quella di piegarsi al settore più forte della classe dominante.
Ma il punto centrale è che il sistema capitalista non ha nulla da offrire. Due secoli fa unificare la Germania, o l’Italia, significava allargare i mercati, creare le basi per un’industria moderna e per un autentico sviluppo economico e sociale. I federalisti europei amano da sempre riferirsi alla fondazione degli Stati Uniti d’America. Ma la rivoluzione americana fu un atto enormemente progressivo precisamente perché apriva la strada a una borghesia in ascesa, portatrice di un sistema che, nonostante tutte le sue diseguaglianze e ingiustizie, rappresentava un gigantesco balzo in avanti per l’umanità. La Guerra Civile americana, che rifuse le basi stesse dell’Unione, fu sostenuta non solo dalla borghesia industriale (che doveva farsi spazio a spese dell’economia schiavista del Sud), ma anche dalla classe operaia e dalla piccola borghesia democratica, in America e in Europa.
Oggi il tentativo di federare l’Europa su basi capitaliste significherebbe solo regresso sociale; divide la classe dominante e non può che suscitare l’opposizione della classe operaia che già ora ha provato le meraviglie dell’“Europa” sotto forma di tagli brutali ai servizi sociali, distruzione dei sistemi pensionistici, privatizzazioni, precarizzazione, distruzione delle tutele del lavoro.
Quale democrazia, quale “Europa dei popoli” potrebbe sorgere su queste basi: ecco una domanda alla quale nessun dirigente della sinistra ha ancora saputo dare risposta.
Né si tratta di un problema limitato all’Europa, o dovuto al fatto che i parlamenti nazionali sono stati esautorati dalla Unione europea.
In tutto il mondo la “democrazia” borghese si svuota sempre più di contenuto; il potere si concentra sempre di più; ovunque si varano leggi sempre più repressive; tutte le decisioni fondamentali vengono sottratte a qualsiasi controllo pubblico, anche il più timido; i governi si alternano senza che nulla cambi… se tutto questo avviene non è per colpa di una qualche “ideologia neoliberista”, ma perché il sistema capitalista non ha più nulla da offrire alla gran parte della popolazione. Nel più potente parlamento del più ricco paese del mondo, gli Usa, la vera maggioranza non è rappresentata dai repubblicani o dai democratici, bensì dai milionari, che per la prima volta costituiscono la maggioranza assoluta dei deputati. Questo è il vero volto della “democrazia” per milionari che ci si illude di poter ringiovanire e abbellire.
Le elezioni europee di maggio e lo scontro politico
L’attuale instabilità dell’eurozona spinge in prima istanza a una gestione nazionale della quale il governo tedesco e la Bundesbank si fanno campioni. Ma tale risposta, in prospettiva, indebolisce ulteriormente i paesi a rischio e rende inevitabili nuove crisi che mineranno l’euro alla base. Le manovre di Draghi e gli instabili compromessi che di volta in volta vengono messi in opera non possono risolvere questa contraddizione di fondo.
Un settore dei rappresentanti politici borghese avanza l’idea dell’Unione politica, ossia di fare dell’Europa un vero e proprio Stato federale sul modello Usa, per risolvere questa contraddizione.
In vista della rielezione del parlamento europeo fissata il 25 maggio, Viviane Reding, esponente del partito popolare e vicepresidente della Commissione Europea, chiede che nella campagna elettorale venga posta all’ordine del giorno “una vera unione politica”. “Dobbiamo costruire gli Stati uniti d’Europa con la Commissione che ne sia il governo e due camere: il Parlamento europeo e un ‘Senato” degli stati membri”. Secondo la Reding, tale processo sarebbe la “migliore risposta agli euroscettici” (Telegraph, 8 gennaio).
Queste prese di posizione aumentano con il timore che i partiti “populisti” più o meno ostili all’Unione europea possano costituire una forza ragguardevole, si stima anche un terzo, del prossimo Parlamento europeo.
La divaricazione sulle prospettive per l’Europa ha anche spaccato il gruppo liberale, terza forza nel parlamento europeo: alla proposta iniziale di candidare l’attuale Commissario agli affari economici, il “duro” Olli Rehn, si è contrapposta vittoriosamente la candidatura di Guy Verhofstadt, una vittoria degli “europeisti” resa possibile anche dal sostegno dei liberali tedeschi. Il comunicato di Verhofstadt dopo aver conquistato la nomina parla chiaro: “I filo-europei saranno attaccati in molti degli Stati membri, il che rende ancora più importante che coloro che credono ancora nell’Unione europea serrino le fila per lottare contro le forze reazionarie del nazionalismo e del populismo e la loro propaganda volta a spaventare i cittadini europei”.
Nel tentativo di dare una parvenza di credibilità alle istituzioni europee ormai universalmente identificate con le peggiori politiche di austerità promulgate da anonimi burocrati privi di mandato popolare, è stato introdotto un cambiamento di facciata nella procedura di nomina del Presidente della Commissione europea. La nomina rimarrà in capo al Consiglio (ossia alla riunione dei presidenti o primi ministri degli Stati membri), ma questi dovranno “tenere conto” del risultato delle elezioni e l’europarlamento potrà approvare o respingere il candidato. Da questa cosmesi “democratica” deriva la scelta dei maggiori partiti di collegare le proprie liste al nome del candidato proposto. Prima ancora dei liberali, i socialisti hanno scelto il proprio candidato nella persona del presidente dell’europarlamento, il tedesco Martin Schulz. Non a caso sono i socialisti i più convinti interpreti di questa mascherata democratica, tanto che Hollande aveva ipotizzato di tenere delle primarie per selezionare il candidato.
Il Partito popolare, principale forza dell’europarlamento e partito di riferimento di 11 primi ministri dell’Ue, nonché dell’attuale presidente Barroso, si è a sua volta diviso sull’opportunità di presentare un candidato, trovando infine l’accordo di indicarlo nel mese di marzo, nonostante l’opposizione di politici di primo piano quali Angela Merkel e Van Rompuy, contrari alla candidatura europeista di Juncker.
La leggenda degli eurobond
Come sempre i riformisti si accodano alle illusioni e alla propaganda della borghesia “progressista”. La parola magica della socialdemocrazia (e delle burocrazie sindacali) si chiama “eurobond”. All’“egoismo” del governo tedesco la socialdemocrazia contrappone la proposta di socializzare il debito su scala europea, abbinata al cambiamento dello statuto della Bce. È questo il cavallo su cui da quattro anni i riformisti puntano le loro speranze e come vedremo è anche il principale punto di contatto col programma avanzato da Tsipras.
Ma ammettiamo che domani venisse messa in pratica, quali sarebbero le conseguenze? Unificare i debiti pubblici implicherebbe immediatamente unificare i bilanci dei singoli Stati in un unico bilancio europeo, e subito dopo unificare i sistemi fiscali per sostenere tale bilancio. Al di là di tutte le chiacchiere sulla democrazia, la borghesia tedesca chiederebbe in cambio un controllo ferreo sulla spesa e le tasse di tutti i paesi, sarebbe la centralizzazione all’ennesima potenza delle politiche di austerità. Peggio ancora se tale mutualizzazione del debito fosse solo parziale, dato che si riprodurrebbe su scala allargata il meccanismo dello spread tra una parte di debito pubblico “buono” e una “a rischio”.
Mutualizzare il debito non significa suddividere il problema per ridurlo, ma significa riprodurlo su scala allargata e non saranno certo gli appelli alla “solidarietà” a convincere chi tiene i cordoni della borsa, ossia la borghesia tedesca, a intraprendere questa strada.
Draghi ha tentato di imbocccare questa strada in maniera surrettizia, ossia aggirando con vari artifici, i divieti imposti dallo statuto della Bce rispetto all’acquisto di titoli di Stato. Questa scelta è stata contestata dalla Bundesbank, da numerosi politici tedeschi ed è stata bocciata dalla Corte costituzionale tedesca con l’argomento (vero) che implica una perdita di sovranità per la Germania, che si dovrebbe accollare le conseguenze delle eventuali perdite. La causa è stata poi trasmessa alla Corte europea di giustizia, che dovrà decidere se insabbiarla (fino alla prossima crisi), accoglierne gli argomenti (e signficherebbe sconfessare tutte le scelte di Draghi) oppure respingerla, aprendo uno scontro istituzionale dagli esiti imprevedibili. Per quanto ci si affanni a girarci intorno, la contraddizione è inaggirabile.
Né è vero che se la Bce iniziasse a stampare moneta il problema sarebbe risolto. Non lo è negli Usa, dove il debito pubblico è esploso e la Federal Reserve pompa denaro al ritmo di 80 miliardi di dollari al mese per sorreggere l’economia, una politica che equivale a lanciarsi in una discesa alla guida di un’automobile senza freni. E infatti non appena si è iniziato a parlare di limitare questa politica sono esplose nuove contraddizioni, generando una fuga di capitali dai paesi emergenti, che già stavano rallentando la loro crescita.
Se l’Europa seguisse le politiche monetarie degli Usa, del Giappone e della Gran Bretagna il risultato sarebbe una serie di svalutazioni competitive delle diverse monete, accompagnata dal risorgere dell’inflazione e probabilmente da una guerra commerciale.
Né le politiche keynesiane, né quelle monetariste possono risolvere questa crisi, che è una crisi organica del capitalismo, anche se è vero che la rigidità della moneta unica ne ha esacerbato gli effetti. Queste illusioni dimostrano solo come le burocrazie riformiste, completamente incapaci di comprendere la profondità di questa crisi, si aggrappano a un passato che non può ritornare. Per i partiti della sinistra radicale, seguirle su questa strada significherebbe il disastro.
In questi giorni sono stati pubblicati dati scandalosi sulle conseguenze delle politiche di austerità in Grecia. La mortalità dei neonati cresce del 43 per cento fra il 2008 e il 2010, i bambini nati morti crescono del 20 per cento, del 19 quelli sottopeso. Nella provincia di Acaia il 70 per cento della popolazione non può acquistare i medicinali prescritti. Si diffonde l’Aids, ritornano malattie quali la tbc e la malaria.
Quaranta milioni di disoccupati, 120 milioni di europei nella povertà… per milioni di persone la parola “Europa” è oggi associata alla miseria e alla disperazione. Non avere una chiara posizione di classe su questo punto significa aprire precisamente lo spazio alla demagogia delle forze di destra e di estrema destra.
La candidatura di Tsipras e il suo programma
Il Partito della sinistra europea, che vede al suo interno forze quali Syriza (Grecia), Izquierda Unica e il Pce (Spagna), Rifondazione comunista, il Pcf e il Parti de Gauche (Francia), la Linke tedesca, il Bloco de Esquerda portoghese, ecc., ha deciso nel suo congresso di dicembre di candidare Alexis Tsipras a presidente della Commissione europea. È quindi fondamentale analizzare con scrupolosa attenzione le basi politiche di questa proposta per capirne la prospettiva. Le speranze suscitate nella sinistra italiana dalla candidatura di Tsipras per le prossime elezioni europee sono fondate? È possibile rilanciare i diritti dei lavoratori, lottare contro la disoccupazione, l’austerità e l’impoverimento di massa attraverso le proposte avanzate dal leader di Syriza?
La domanda è tutt’altro che accademica. A differenza dell’Italia, in diversi paesi europei (Grecia, Spagna, Francia innanzitutto) le forze aderenti al Partito della sinistra europea hanno visto negli ultimi anni un significativo aumento dei consensi elettorali. L’opposizione alle politiche dominanti, gestite sia dai partiti di destra che dai socialisti ha generato grandi proteste e movimenti di massa che in parte hanno anche espresso un voto a sinistra.
È quindi tanto più importante capire quale risposta debba avanzare la sinistra di alternativa, quale programma e quale prospettiva politica possa dare una risposta all’altezza dello scontro in atto.
A fine gennaio Tsipras ha pubblicato una Dichiarazione programmatica nella quale ripropone una strategia pienamente inserita in un orizzonte europeista di sinistra. Eccone i punti principali.
1) Porre fine all’austerità.
2) Un New Deal europeo da finanziare con prestiti a basso costo da parte della Bce. A dire di Tsipras il modello Usa sarebbe in questo senso vincente: “Se lo hannno fatto gli Usa, perché non possiamo farlo noi?” (dove Tsipras veda questi successi degli Usa è un mistero).
3) Prestiti alle piccole e medie imprese.
4) Usare i Fondi strutturali europei per creare occupazione
5) Sospensione dell’obbligo del pareggio di bilancio, almeno nei periodi di recessione.
6) Banca europea come prestatrice di ultima istanza, ossia la Bce deve stampare denaro per finanziare i debiti pubblici: “Il destino dell’euro e la prosperità dei popoli europei dipendono da questo.”
7) I paesi con un surplus commerciale devono riequilibrare i propri conti all’interno dell’Europa, ossia esportare di meno e importare di più.
8) Conferenza europea sul debito “come quella del 1953 che alleviò la Germania del peso del suo passato e aiutò la ricostruzione post-bellica della democrazia tedesca”. Eurobond e socializzazione del debito su scala europea
9) Separazione delle banche d’investimento da quelle che raccolgono il risparmio, sul modello del Glass-Steagall Act di Roosevelt (1933).
10) Legislazione europea per tassare i paradisi fiscali.
In sintesi: la crisi dipende dal liberismo e non dalle contraddizioni del sistema capitalista; il programma è quindi ispirato al keynesismo classico e non contiene alcuna rivendicazione di classe; l’eurozona viene definita “spazio ideale” per politiche riformiste; l’interlocutore privilegiato è la socialdemocrazia, oggetto di un accorato appello finale: “La realtà non concede altro tempo alla socialdemocrazia europea. I socialdemocratici devono effettuare qui ed ora una svolta storica verso la propria ridefinizione nella percezione e nella coscienza pubblica come una forza politica della sinistra democratica.”
Sparita la lotta di classe, ci si prodiga nel consigliare alla classe dominante delle politiche adatte a mitigare la crisi sociale, tentando di impressionare la borghesia con “grida di dolore” (se non si cambia qualcosa affonderà l’Europa, affonderà l’euro, avanzerà l’estrema destra, ecc.).
Illusioni e realtà
Schierare la Sinistra europea su questa linea significa scegliere di sostenere una delle frazioni della classe dominante, abbellirne il volto con una retorica “sociale” e “democratica”, portare acqua al mulino dell’avversario.
Non serve ripetere un milione di volte le parole “solidarietà”, “democrazia”, “Europa dei popoli” per cambiare volto alla realtà. Sotto il capitalismo si può avere solo un’Europa capitalista; se comanda la borghesia, lo Stato difenderà i suoi interessi e questo vale sia a livello nazionale che europeo. Non partire da questa realtà significa ingannare se stessi e i lavoratori. Non a caso la classe dominante usa oggi l’accusa di essere “antieuropei” come marchio d’infamia; la dichiarazione di lealtà all’“Europa” è considerata il primo e fondamentale certificato di affidabilità.
Il manifesto di Tsipras offre precisamente questo certificato: “Dobbiamo riunire l’Europa e ricostruirla su basi democratiche e progressiste”. E più oltre: “La riorganizzazione democratica dell’Unione europea è l’obiettivo politico per eccellenza. A questo fine dobbiamo allargare il raggio dell’intervento pubblico e dell’impegno e della partecipazione dei cittadini nelle politiche europee e nella gestione dei servizi. Dobbiamo potenziare le istituzioni che hanno una legittima base democratica come il Parlamento europeo.
Già in settembre Tsipras era stato molto chiaro nel suo intervento al forum Kreisky tenuto a Vienna.
Ecco alcuni estratti del suo discorso.
Tsipras si rallegra di essere in compagnia di “amici austriaci i quali presumo condividano con me le stesse preoccupazioni concernenti la nostra comune casa europea. Questa casa comune è oggi minacciata da una pericolosa bomba a orologeria, sociale e politica, una bomba che possiamo e dobbiamo disinnescare.” Manifesta la sua preoccupazione per “il riemergere del nazismo, connesso con le estreme politiche di austerità imposte alla Grecia dalla troika e dai governi greci che si sono succeduti.” Lamenta che la socialdemocrazia europea abbia rinunciato, a partire dagli anni ’90, a politiche di regolazione del capitalismo aggiungendo che “se i socialdemocratici avessero seguito l’eredità di uomini di Stato quali Bruno Kreisky, Willy Brandt e Olof Palme l’Europa non si sarebbe trasformata nell’odierno deserto neoliberale”. Ha tracciato poi un parallelo tra la crisi del 1929, che a suo dire sarebbe stata causata dai cambi fissi legati al Gold standard, di cui i governi di allora non avrebbero riconosciuto l’“errore di progetto” così come oggi la rigidità dell’eurozona e il rifiuto dei governi di prenderne atto porterebbe allo stesso esito: allora come oggi, il nazismo potrebbe trionfare.
Non ci dilunghiamo nel riportare l’intera analisi di Tsipras, che attribuisce tutte le colpe della crisi alle conseguenze dell’Unione monetaria e della sua gestione politica; basti dire che l’idea che si tratti di una crisi del sistema capitalista non fa capolino neppure per sbaglio in tutto il discorso. Probabilmente per non impressionare i suoi interlocutori socialdemocratici (e soprattutto i loro padroni, che sono coloro che stringono il cappio al collo della Grecia), Tsipras avanza le seguenti proposte per risolvere la crisi.
Nonostante tutti i difetti dell’eurozona, dice Tsipras, “ora ne siamo parte e il costo del suo smantellamento sarebbe orrendo per tutti noi. Pertanto, anche se pensiamo che sia una unione monetaria terribile, che con la moneta unica divide i nostri popoli, abbiamo il dovere di riprogettarla”. “Se i banchieri, i politici al potere e gli eurocrati avranno la meglio, l’Europa si disintegrerà”. Quindi: “Syriza vincerà le prossime elezioni in Grecia e riuscirà a compiere un cambiamento di fondo. Un governo di sinistra in Grecia tenderà la mano ai socialdemocratici europei, ai liberali dalla mente aperta, a tutti gli europei che non vogliono che l’Europa sprofondi in un incubo.
“E chiederemo loro di unirsi a noi in un progetto comune: il progetto di stabilizzare l’eurozona, il primo passo verso un’Europa aperta, democratica e coesiva. Per farlo dobbiamo negoziare con determinazione con le principali leve del neoliberismo istituzionale a Francoforte, Berlino, Bruxelles, Parigi (per qualche motivo Tsipras ha dimenticato Washington… NdA).
“Un governo di Syriza porrà sul tavolo un Piano Marshall europeo che comprenda una vera unione bancaria, una gestione centralizzata del debito da parte della Bce e un programma di massicci investimenti pubblici. Soprattutto chiediamo una conferenza straordinaria sul debito europeo di tutta la periferia, in analogia con la conferenza di Londra del 1953 sul debito della Germania, che decise di tagliarne una gran parte, una moratoria dugli interessi e una clausola di crescita.
“Queste sono le richieste minime di un futuro governo di Syriza.
- Possono essere accolte senza alcun cambiamento nei Trattati.
- Senza che i contribuenti tedeschi o austriaci debbano pagare per i paesi della periferia.
- Senza alcuna perdita di sovranità dei nostri parlamenti.
(…) L’unica alternativa è accettare la morte lenta della mia nazione e la lenta disintegrazione dell’eurozona, che distruggerà la stessa Unione europea.
“Per concludere, il mio partito, Syriza, è impegnato a promuovere un piano europeo per la salvezza dell’eurozona come mezzo per dare alla Grecia un momento di respiro (…) uniamo le nostre forze per fare ciò che è bene fare, in tutta Europa”.
Il congresso della Linke tedesca, tenutosi in febbraio, ha mostrato lo stesso spostamento a destra; una serie di formulazioni critiche rispetto all’Ue sono state cancellate dal programma per le elezioni di maggio.
Per la Federazione Socialista!
Nonostante tutti i proclami la crisi dell’eurozona non è affatto superata. Nuove e più gigantesche convulsioni si stanno preparando: crisi economiche, finanziarie, politiche e soprattutto nuove sollevazioni di massa; la Grecia è stata solo il preludio. Questa è la prospettiva alla quale deve prepararsi la sinistra in Europa: non a fare il consigliere del principe, ma a costruire una reale alternativa per centinaia di milioni di lavoratori e di giovani che si trovano spinti in una strada senza uscita e che non avranno altra scelta se non quella di ribellarsi.
Se Tsipras e gli “europeisti di sinistra” si illudono che l’Europa sia il terreno ideale per una politica di riforme, altri a sinistra ritengono che il “recupero della sovranità” nazionale, ossia la rottura con l’Euro, possa riaprire spazi per politiche economiche alternative. Questa ultima posizione è presente soprattutto nelle correnti di derivazione stalinista, inopinatamente passate dal “socialismo in un solo paese” alla “sovranità monetaria in un solo paese”…
In questa divisione della sinistra, incapace di presentare una posizione di classe indipendente e che si limita cercare possibili interlocutori in questa o quella frazione della borghesia, si misura tutto l’arretramento ideologico che decenni di riformismo e di stalinismo hanno seminato nel movimento operaio.
Ma la storia procede più velocemente dei dirigenti che si attardano a sognare impossibili ritorni al passato.
Se – o meglio, quando – la crisi arriverà al suo punto decisivo in paesi come la Grecia, la Spagna, il Portogallo, l’Italia, un governo delle sinistre sarà posto di fronte a una scelta senza mezze soluzioni: o “salvare l’euro”, come propone Tsipras, o rompere con l’Unione europea e avviare un percorso di transizione e rottura col capitalismo che parta dal non riconoscimento del debito, dalla nazionalizzazione delle banche, delle principali industrie e leve economiche, dal controllo dei movimenti di capitale e del commercio estero. Arretrare o cercare la via di mezzo di fronte a queste scelte porterebbe a una sconfitta disastrosa.
L’argomento secondo cui “oramai a livello nazionale non si decide nulla, la battaglia va fatta a livello europeo” suona molto radicale, ma nella pratica significa dire ai lavoratori in Grecia che non possono fare nulla per risolvere i loro problemi fintanto che in tutta Europa non si produca un movimento di massa.
Le condizioni diseguali del capitalismo, esacerbate dalla crisi, rendono pressoché inevitabile che questo processo si sviluppi attraverso la rottura di uno o più “anelli deboli” all’interno dell’Europa. L’indebolimento dei legami tra le diverse borghesie all’interno dell’Ue, l’acuirsi dei contrasti, il fatto che gli scontri politici ed economici emergano in modo sempre più netto e aperto, tutto questo non è l’inizio del fascismo o della barbarie, come si lamentano i riformisti. È invece un processo che può favorire la prospettiva rivoluzionaria, che indebolisce la capacità di reazione della classe dominante. Fallimentare sotto tanti punti di vista, l’Unione europea un “successo” lo ha ottenuto: è stata uno strumento formidabile per concentrare le forze della borghesia su scala continentale, moltiplicando la capacità dei singoli Stati di scaricare sui lavoratori le conseguenze della crisi. Ogni volta che i lavoratori provano ad alzare la testa, che sia in Grecia o in Spagna, immediatamente si crea il “fronte unico” della classe dominante, che al grido “l’Europa lo vuole!” serra le fila, azzittisce le deboli lamentele delle burocrazie sindacali e impone in modo spietato le proprie politiche.
La crisi dell’Unione europea, parte della crisi generale del capitalismo, avrà un aspetto progressista nella misura in cui indebolirà tanto la borghesia quanto i riformisti e renderà più facile l’aprirsi di una situazione rivoluzionaria nel nostro continente.
La rottura con le politiche europeiste borghesi è una condizione indispensabile per poter svolgere questo compito. Solo rovesciando il dominio del capitale si può andare verso l’unica forma realmente progressista di integrazione europea, ossia una federazione socialista e democratica. Socialista in quanto basata sulla proprietà pubblica e sulla gestione collettiva delle banche, delle grandi industrie, delle reti di comunicazione, dei principali rami dell’economia al fine di rispondere ai bisogni della società; democratica, perché i popoli vi parteciperanno solo su basi autenticamente volontarie e consapevoli, con il diritto di scegliere se entrarvi e se rimanervi.