I minatori della regione di Donetsk hanno incrociato le braccia il 27 maggio, dando il via ad uno sciopero ad oltranza contro l’offensiva in corso da parte dell’esercito ucraino e per la fine dell’“operazione anti-terrorismo” (ATO) nella regione; hanno già preso parte allo sciopero molte miniere del Donbas e sembra che la mobilitazione si stia diffondendo ad altre ancora.
Nel frattempo i portavoce del governo di Kiev e le forze armate ucraine minacciano un ulteriore giro di vite e il responsabile-stampa dell’ATO Alexei Dmitrashkovsky ha dichiarato che “l’operazione andrà avanti fino a quando tutti i terroristi non saranno stati distrutti o non si saranno arresi”.
Questi avvenimenti sono successivi alle presidenziali in Ucraina, che hanno visto l’elezione dell’oligarca pro-Maidan Petro Poroshenko. Nonostante il tentativo di mantenere la facciata dello statista moderato e ragionevole, la repressione militare ha smascherato le sue vere intenzioni e non ha fatto altro che ribadire l’inflessibile posizione di Kiev verso le regioni del Sud-Est del Paese. La classe dominante ucraina, vale a dire gli oligarchi, è stata portata all’esasperazione dalla crisi attuale ed è disposta a fare qualche concessione. Poroshenko, a differenza del suo più diretto rivale alle elezioni Yulia Tymoshenko, non ha basato la propria campagna elettorale sulla promessa dell’adesione dell’Ucraina alla NATO, e si dice disposto, per il momento, ad accettare il mantenimento dello status di Paese non-allineato per l’Ucraina, come concessione a Putin (Financial Times 27/05/14), così come si dichiara disposto ad aprire dei negoziati con Mosca. In cambio il Cremlino ha già abbassato i toni e il ministro degli esteri Lavrov ha annunciato che la Russia rispetterà l’esito delle elezioni ucraine.
L’approccio rassicurante e diplomatico di Kiev è segno di una disponibilità riluttante ma obbligata a prendere atto degli interessi della Russia nella regione. In cambio questo fornisce a Poroshenko il via libera per intensificare la repressione nelle regioni orientali ribelli senza dover temere l’intervento diretto della Russia, al fine di restituire a Kiev il controllo sulla regione e difendere le proprietà degli industriali ucraini. Quest’ultima è una questione pressante per Kiev, dal momento che questi industriali sono proprietari di vasti insediamenti minerari, di impianti siderurgici e di acciaierie nel Donbas, che i leader delle Repubbliche Popolari di Donetsk e Luhansk hanno minacciato più volte di espropriare.
Questa prospettiva di un cauto riavvicinamento alla Russia si è già tradotta in una ripresa di fiducia da parte della borghesia ucraina. Forbes Ucraina ha invocato la necessità di una figura simile a quella di Pinochet per instaurare una “dittatura delle riforme” in grado di portare avanti da un lato una repressione decisa e sanguinosa nelle regioni ribelli e dall’altro l’attuazione della radicale “terapia d’urto” neo-liberista per porre fine a qualsiasi “parassitismo sociale” rimasto in Ucraina.
Sebbene Poroshenko non sia sicuramente un nuovo Pinochet e ami usare assieme alle baionette anche la diplomazia, sembra che la classe dominante ucraina sposi nel complesso la strategia di cui sopra. Il governo si è già imbarcato in un grandioso programma di austerità, con tagli alle pensioni e a decine di migliaia di posti di lavoro nel settore pubblico, insieme ad un aumento dei prezzi dei beni di prima necessità come alimentari e gas. L’attuazione di queste riforme neo-liberiste fa parte del piano di salvataggio per l’Ucraina del FMI.
Cosa ancora più importante in questo momento, l’operazione militare contro le regioni ribelli dell’Est è in pieno svolgimento. Come abbiamo riportato in precedenza, per colpire le città insorte sono stati usati artiglieria, aerei da combattimento ed elicotteri, in particolare contro Donetsk e Sloviansk, causando la morte di molti civili e la distruzione di intere aree residenziali. La violenta battaglia per l’aeroporto di Donetsk è stata l’episodio principale di questa operazione, e al riguardo il portavoce dell’ATO Dmitrashkovsky ha cinicamente vantato più di 200 morti tra le fila della Repubblica Popolare. È a seguito di questi avvenimenti che i minatori del Donbass hanno intrapreso uno sciopero ad oltranza, chiedendo la fine della repressione e il ritiro delle forze armate ucraine.
È bene ricordare che sin dall’inizio della crisi la classe dominante ha tentato varie volte di attirarsi la simpatia dei lavoratori o quantomeno di mantenere l’apparenza di un sostegno da parte dei lavoratori mettendo in scena i cosiddetti “scioperi” formalmente pro-Maidan e in favore del nuovo governo. Nel periodo immediatamente precedente il rovesciamento di Yanukovich vari “scioperi” sono stati completamente artefatti o comunque comandati direttamente dai direttori delle aziende. Più di recente, Rinat Akhmetov, il più ricco oligarca ucraino e padrone di molte delle industrie del Sud-Est, ha chiesto ai propri dipendenti di mobilitarsi contro la Repubblica Popolare che lo sta minacciando di espropriazione, richiesta miseramente caduta nel vuoto.
Oggi invece, al contrario, vediamo un vero sciopero per iniziativa dei minatori del Donbass. Questa mobilitazione segue la falsa riga dello sciopero di aprile dei minatori di Luhansk, che chiedeva aumenti salariali oltre al reintegro dei lavoratori licenziati per avere partecipato alle proteste.
Dopo il lancio dello sciopero martedì 27, la mattina di mercoledì 28 maggio diverse centinaia di minatori hanno sfilato in corteo a Donetsk, sventolando le bandiere della Repubblica Popolare di Donetsk e scandendo slogan come “No al fascismo nel Donbas!”; viene citata la frase di un manifestante: “non vogliamo vedere soldati qui. I nostri bambini hanno paura di uscire fuori casa. Sono stati uccisi dei nostri concittadini pacifici, e non possiamo restare fermi a guardare”.
Un altro ha dichiarato: “Voglio la pace e la possibilità di lavorare e guadagnare. Voglio che i soldati occupanti se ne vadano e se ne tornino a Kiev”. Alcuni funzionari del “Sindacato Indipendente dei Minatori”, come Mykola Volynko, che non è solo un burocrate sindacale ma anche un ex candidato parlamentare del partito nazionalista “Batkivshchyna” (Patria) alle elezioni del 2012, hanno fatto di tutto per prendere le distanze da quanto sta accadendo e sono ansiosi di sottolineare la loro estraneità all’organizzazione di queste azioni. Questo dimostra come questo sindacato “indipendente” sia diventato uno strumento delle politiche capitaliste, legato in particolare al partito “Patria” della Tymoshenko, piuttosto che di rappresentanza della classe operaia.
Questi scioperi hanno una natura chiaramente politica, e dimostrano il rifiuto da parte dei lavoratori per le autorità ultra-nazionaliste e neo-liberiste radicali di Kiev che per loro significano solo tagli, peggioramento delle condizioni di vita e attacchi di bande fasciste contro le organizzazioni dei lavoratori.
Questo è uno sviluppo di enorme importanza. Se questa mobilitazione si allargasse a strati più ampi della classe operaia costituirebbe un punto di svolta cruciale negli eventi. In questo momento il compito più importante è quello di spingere ulteriormente in avanti questi sviluppi, perché la classe operaia traduca in fatti le parole della Repubblica Popolare sugli espropri e le nazionalizzazioni. L’espropriazione degli oligarchi, a cominciare da Akhmetov, sarebbe fonte di ispirazione per i lavoratori di tutta l’Ucraina risanando così la frattura tra Est e Ovest.
28 maggio 2014