Sabato 8 Dicembre il presidente venezuelano Chàvez ha annunciato che si sarebbe dovuto sottoporre a un altro intervento chirurgico a Cuba. Aggiungendo che “ci sono sempre dei rischi in operazioni come questa” ha spiegato che “se dovesse succedere qualcosa che mi ostacoli (nell’esercizio della carica)”, la sua scelta per un’eventuale sostituzione cadrebbe sul vicepresidente Maduro.
L’annuncio è stato uno shock per le masse bolivariane. È stata la prima volta che Chàvez ha parlato di una sua sostituzione alla guida della rivoluzione e questo rende l’idea di quanto sia preoccupato che qualcosa possa andare storto nella suo percorso di guarigione. Decine di migliaia di venezuelani sono scesi in strada domenica 9 dicembre, riempiendo le pizze di ogni città, per dimostrare il loro sostegno al presidente.
L'oligarchia venezuelana e l'imperialismo si sono scatenati subito dopo questo annuncio mostrando una fretta indecente di sbarazzarsi di Chávez. Essi hanno sostenuto che secondo l’articolo 234 della costituzione, in caso di temporanea assenza del presidente, il vice presidente Maduro dovrebbe assumere la presidenza. In effetti, Chávez ha utilizzato la disposizione di cui all'articolo 235 della Costituzione per chiedere il permesso all'Assemblea nazionale di assentarsi dal paese per più di 5 giorni. che è stato concesso domenica 9 dicembre.
Dietro a queste argomentazioni legalistiche c’è il chiaro intento dell’opposizione di rimuovere Chàvez dall’incarico nella speranza che non sia più in grado di tornare. Non dobbiamo dimenticare che fin dall’elezione di Chàvez nel 1998, l’oligarchia, i banchieri, i proprietari delle terre, dei media e del grande capitale, insieme all’imperialismo hanno portato avanti un’incessante campagna per sconfiggere la rivoluzione e rovesciare Chàvez, con ogni mezzo a loro disposizione, legale o illegale che fosse. Incluso il golpe dell’aprile del 2002, la serrata criminale e il sabotaggio dell’industria petrolifera nel 2002-2003, le rivolte del guarimba nel 2004, l’ininterrotto sciopero degli investimenti, il sabotaggio della catena di distribuzione alimentare (incluso l’accaparramento, il racket e il contrabbando), eccetera, eccetera.
Adesso, insistendo sulla rimozione di Chàvez dalla presidenza, vogliono ottenere quello che non sono riusciti ad avere con le elezioni del 7 ottobre. C’è una buona ragione se sono così fissati sulla figura di Chàvez: egli infatti gioca un ruolo centrale nella rivoluzione bolivariana. C’è quasi un rapporto simbiotico tra il presidente e le masse bolivariane che sono il motore della rivoluzione. Chàvez si è sempre mostrato sensibile alla pressioni che provengono dal basso e per questo le masse lo considerano come uno di loro.
C’è un contrasto netto con tutte le altre figure di rilievo del movimento bolivariano, i ministri, i governatori, i sindaci. Nessuno di loro ha anche solo una frazione dell’autorità morale e politica che Chàvez ha tra la classe operaia e i poveri che sono la base su cui poggia la rivoluzione. Molti di loro sono visti come corrotti carrieristi che cercano solo di ottenere un guadagno personale dalla loro partecipazione al movimento bolivariano. Mentre le masse rivoluzionarie, i lavoratori, i contadini e i poveri protestavano nelle strade contro il golpe dell’Aprile del 2002, molti dei governatori regionali “bolivariani” giuravano fedeltà al novo governo illegittimo di Carmona, per poi cambiare ancora velocemente sponda non appena il golpe veniva sconfitto.
In stati importanti come Aragua, Lara, Monagas e altri, i governatori bolivariani hanno “saltato il fosso” (saltar la talanquera) e si sono uniti all’opposizione reazionaria.
Altri sono rimasti sulla sponda bolivariana, ma si comportano come politici borghesi della IV Repubblica, sistemando in varie posizioni amici e parenti e immischiandosi in tutti i tipi di corruzione.
La burocrazia statale in molti casi agisce come freno all’iniziativa rivoluzionaria delle masse. In molti casi i lavoratori e le masse hanno dovuto scavalcare ministri e governatori e rivolgersi direttamente a Chàvez perchè le cose si facessero veramente. Giusto per fare un esempio, la lotta eroica dei lavoratori della SIDOR contro il governatore regionale Rangel, che aveva mandato contro di loro la guardia nazionale, e contro l’allora ministro del lavoro Ramon Rivero, in cui alla fine è dovuto intervenire Chàvez con un decreto per l’espulsione della multinazionale e la ri-nazionalizzazione di questa importante acciaieria nel Guayana. E alla fine, Rivero ha perso anche il suo lavoro.
Dopodiché i lavoratori delle industrie fondamentali del paese hanno chiesto che venisse introdotto il controllo operaio, contro la posizione sostenuta da dirigenti, direttori e ministri. Alla fine Chàvez ha convocato una conferenza per istituire il Piano Guayana Socialista e ha accettato la richiesta dei lavoratori, nominando una serie di direttori-operai nelle fabbriche statali più importanti.
Ci sono molti altri esempi come questo che hanno consolidato il rapporto tra il presidente e le masse rivoluzionarie e allo stesso tempo rafforzato un sentimento fortemente radicato di sospetto e sfiducia verso i burocrati e i riformisti al vertice del movimento.
La classe dominante e l’imperialismo pensano che mentre Chàvez è “imprevedibile” (nel senso che è abbastanza capace di prendere decisioni nette e di sferrare colpi contro i loro interessi), chiunque ne prenda il posto sarà molto più facile da sconfiggere nelle elezioni e allo stesso tempo molto più ben disposto alla pressione dell’opinione pubblica borghese che spinge per una conciliazione e delle concessioni. Il Chavismo senza Chavez, pensano, perderebbe tutta la sua pericolosità rivoluzionaria, diventando molto più affidabile per gli interessi del capitale.
Subito dopo che Chàvez aveva fatto il suo annuncio, i sostenitori dell’opposizione hanno cominciato a usare su Twitter l’hashtag #RIPChàvez (Chavez riposa in pace, ndt), rivelando la più disgustosa immoralità da parte degli elementi più pazzi di questa opposizione “democratica”. Nello stesso solco i commentatori dell'opposizione più estrema hanno dichiarato la fine della rivoluzione (El Nuevo Pais ha pubblicato una prima pagina che titolava “La rivoluzione è finita”).
Tuttavia, i rappresentanti più intelligenti della classe dominante hanno adottato un’altra linea. Attenti a non far intravedere la propria gioia per la notizia della malattia di Chàvez, hanno sostenuto la necessità dell’unità nazionale oltre le divisioni politiche, per la riconciliazione e il dialogo, eccetera.
L’associazione padronale Federcamaras (che ha giocato un ruolo centrale nel golpe dell’Aprile 2002), ha rilasciato una dichiarazione nella stessa linea. Lunedì 10 dicembre, in una conferenza stampa, hanno chiesto un incontro urgente con il vice presidente Nicolas Maduro per “concordare misure macro-economico urgenti” di cui pensano il Venezuela abbia bisogno. Sostanzialmente chiedono delle concessioni da parte del governo sul controllo del cambio (una possibile svalutazione), la liberalizzazione dei prezzi dei prodotti alimentari regolati dallo stato, eccetera.
Il presidente di Federcamaras Jorge Botti non fa giri di parole: “Non possiamo aspettare Gennaio. Dobbiamo prendere delle decisioni adesso. Chiediamo direttamente al presidente in carica, Nicolas Maduro, di prendere, in concerto con i suoi ministri dell’area economica, le decisioni necessaria il più presto possibile.” (Patronal pide reunión a Maduro y dice Venezuela está virtualmente paralizada)
Notate l’arroganza di queste persone. Sono stati sonoramente sconfitti nelle elezioni di due mesi fa e adesso pretendono di governare il paese e prendere le decisioni economiche più importanti.
La stampa economica e gli analisti finanziari insistono nel descrivere Maduro come un uomo del dialogo, “qualcuno con cui possiamo parlare.” Stratfor lo descrive come uno “pragmatico”, mentre Barclay Capitol all’inizio dell’anno diceva che se Moduro dovesse guidare il governo “ci potremmo aspettare un approccio più moderato” da lui. Resta da vedere quanto questi siano solo pii desideri da parte dei capitalisti. Quello che vorrebbero è chiaro: Chàvez fuori dai giochi e un nuovo governo che faccia ogni tipo di concessione al grande capitale e alle multinazionali abbandonando ogni idea di andare verso un’economia nazionalizzata e pianificata.
C’è un altro terreno in cui l’oligarchia sta tastando il terreno: i cosiddetti prigionieri politici e l’esilio. Subito dopo la loro sconfitta alle elezioni del 7 Ottobre hanno cominciato una compagna su questa questione. Sostengono che tutti quelli che sono stati imprigionati per “motivi politici” e quelli che sono dovuti espatriare per una “persecuzione politica” dovrebbero essere amnistiati. Innanzitutto bisogna chiarire un punto in questa questione: non si tratta di persone che sono perseguitate per le loro opinioni politiche, ma sono politici che hanno infranto la legge e adesso o sono in galera oppure (e sono la maggioranza) sono espatriati per scampare alla giustizia.
Sono le persone che hanno messo in atto il golpe dell’Aprile 2002 (compreso il presidente golpista Pedro Carmona in “esilio” in Colombia), le persone che hanno organizzato il sabotaggio dell’industria petrolifera dieci anni fa, Manuel Rosales che è stato accusato di corruzione e si è rifugiato in Perù, e altri che sono ricercati in relazione all’omicidio del procuratore di stato Danilo Anderson (che investigava sul golpe quando è stato ucciso), eccetera. Queste persone dovrebbero essere giudicate e dovrebbero pagare per i loro crimini, per cui non hanno mai chiesto scusa o mostrato un minino di rimorso.
Il fatto riportato dal deputato dell’opposizione Edgar Zambrano, che sta girando il mondo per compilare una lista di questi “esiliati” (a Miami, Madrid, Bogotà, ecc.), secondo cui “il governo attraverso Nicolàs Maduro ha espresso la propria volontà politica di voler risolvere la situazione”, è scandaloso e ha creato grande clamore tra gli attivisti bolivariani. Finora nessun rappresentante del governo ha smentito le dichiarazioni di Zambrano.
Quello che si osserva è una situazione in cui i capitalisti stanno esercitando una pressione sulla direzione del movimento bolivariano in cerca di una conciliazione e di concessioni. D’altra parte le masse bolivariane spingono avanti, verso un compimento della rivoluzione, ma si ritrovano senza una chiara direzione e senza una struttura rivoluzionaria e democratica attraverso cui poter decidere rispetto al futuro della rivoluzione.
Vale la pena ricordare che negli ultimi quattordici anni le masse hanno sempre risposto scendendo in piazza in milioni ogni volta che hanno avuto la possibilità di organizzarsi. Nei Circoli bolivariani all’inizio, nelle Unità di battaglia elettorale durante il referendum revocatorio, al lancio del Fronte Francisco Miranda, alla creazione del sindacato UNT; alla fondazione del PSUV, alla fondazione della sua organizzazione giovanile il JPSUV, e molte altre. Dentro queste organizzazioni, le masse si sono istintivamente rivolte a quei leader che sembravano più radicali, che mantenevano rapporti più solidi con la base e che portavano avanti nel modo più deciso la battaglia contro l’oligarchia. E ogni singola volta, dopo un breve periodo di entusiasmo, discussione democratica e fervore rivoluzionario da parte della base e degli attivisti, la burocrazia ha fatto in modo di chiudere questi spazi e le organizzazioni.
La Gioventù del PSUV è sta fondata con un congresso nel 2008 in cui il tentativo di introdurre uno statuto antidemocratico è stato respinto ma da allora non c’è ancora stato un altro congresso. Lo stesso PSUV ha avuto un congresso fondativo molto democratico e tendente a sinistra e poi un altro più ideologico nel 2010, ma di fatto la sua struttura è stata ridotta a poco più di una macchina elettorale. I membri del partito non hanno potuto anche solo dire una parola sulla selezione dei candidati per le prossime elezioni regionali del 16 dicembre.
La rivoluzione bolivariana è chiaramente a un bivio, in cui emergono diverse linee politiche su quale sia la via da seguire.
La burocrazia per esempio ha distrutto il Piano Guayana Socialista che abbiamo descritto sopra, rimuovendo tutti direttori-operai dalle industrie fondamentali. Cosa ottenuta con una campagna di aperto sabotaggio, discredito, diffamazione e violenza fisica, orchestrato da tutti quello che, per ragioni proprie differenti, sono contro il controllo operaio. La frazione sindacale FBT ha giocato un ruolo fondamentale in questa campagna così come il governatore regionale Rangel Gòmez. Il malcontento è talmente grande tra i lavoratori di questa regione che sta crescendo il sostegno per l’altro candidato bolivariano, Arcinega, appoggiato anche dal Partito Comunista.
Alcuni settori della direzione del movimento bolivariano sostengono un specie di economia mista, in cui gli elementi “socialisti” dovrebbero crescere progressivamente fino a, in un futuro indeterminato, arrivare a sopravanzare quelli capitalisti. In questo modo, si dice, dovremmo arrivare ad avere una società socialista senza rovesciare troppo e troppo presto la classe dominante. Secondo noi questo è un percorso suicida, perchè significa che il normale funzionamento dell’economia di mercato capitalista verrebbe interrotto senza essere sostituito da una piano democratico della produzione basato sulla nazionalizzazione dei mezzi di produzione. Questa situazione porta a penuria di merci, sabotaggi, inflazione e alla generale disorganizzazione dell’economia che colpisce principalmente i settori più poveri, cioè la base naturale di appoggio della rivoluzione.
Nel suo discorso di sabato sulla sua salute, Chàvez ha fatto un appello per l’unità del movimento. Noi siamo i primi ad essere a favore di un movimento rivoluzionario unito. Ma le differenze esistono e sono reali. L’unico modo per raggiungere l’unità è permettere al movimento rivoluzionario nel suo insieme di discutere e prendere una decisione ponderata. È esattamente quando la burocrazia riduce la democrazia nel movimento che nascono le divisioni.
Ancora una volta le masse, il 7 di Ottobre, hanno ottenuto una vittoria per la rivoluzione bolivariana votando per il presidente Chàvez. Il quale aveva un programma che parlava di economia socialista e della necessità di sbarazzarsi del vecchio apparato statale. Questo non è il momento per il compromesso o per il dialogo con i capitalisti. È il momento di mettere in pratica quel programma. Che secondo noi può essere fatto solo espropriando i mezzi di produzione, le banche e le grandi proprietà terriere mettendoli sotto il controllo democratico dei lavoratori.
La malattia del presidente Chàvez dimostra che un singolo uomo non può portare avanti una rivoluzione socialista. È il momento per la classe operaia e per i poveri di prendere l’iniziativa nelle proprie mani.
Dovrebbe essere convocato un congresso nazionale rivoluzionario con delegati eletti in ogni fabbrica, luogo di lavoro, di studio, quartiere e comunità contadina così che si possa prendere la necessaria decisione su quale dovrebbe essere il prossimo passo.