Non è ora di capire?
Il voto del 27-28 maggio parla così chiaro che tutte le prese di posizione successive concordano nell’identificare la sconfitta del governo come elemento centrale. Il paragone con le precedenti elezioni del 2002, provinciali e comunali, è inequivoco. In quasi tutto il nord il centrosinistra arretra, variano solo le percentuali.
In provincia di Milano sugli 11 comuni chiamati al voto, 8 erano governati dall’Unione e 3 dalla destra. Degli 8 resta solo Sesto San Giovanni (dove l’Unione perde 7500 voti e oltre 8 punti), quattro vanno al ballottaggio in condizioni di svantaggio iniziale per il centrosinistra, gli altri sono già in mano alla Casa delle libertà. Città importanti come Monza e Verona vengono riconquistate dalla destra. In numerosi capoluoghi e comuni importanti della Lombardia e del Veneto, l’Unione non solo perde, ma non pare neppure in corsa.
Sono ben poche le situazioni nelle quali elementi locali hanno prevalso sull’elemento di fondo di queste elezioni, ossia la volontà di ampi settori dell’elettorato di sinistra di dare un duro messaggio di critica al governo nazionale. Lo conferma la crescita dell’astensione, in particolare nelle provinciali.La sconfitta del governo è riconducibile innanzitutto al tracollo del costituendo Partito democratico. Secondo il riassunto di Matteo Bartocci sul Manifesto del 30 maggio, l’Ulivo nelle provinciali (il voto più “politico”) ha perso la bellezza di sei voti su dieci: da 556.313 voti scende 229.626. Addirittura improponibile il confronto con le politiche, dove nelle stesse province Ds e Margherita avevano preso 639.960 voti.
A Vicenza, dove lo scontro sulla base Usa del Dal Molin è stato da molti considerato come un punto di svolta nella vicenda del governo Prodi, i risultati parlano chiarissimo. La destra stravince sfiorando il 60 per cento nonostante perda come numero di voti assoluti. Ma gli oltre 8.000 voti in meno della destra spariscono di fronte ai 78.000 persi dall’Ulivo, che passa dai 142.168 voti del 2002 ai 63.896 di queste elezioni. Nonostante la candidatura distinta sostenuta da Prc, Pdci e Verdi, il Prc perde a sua volta passando da 9064 a 5410 voti (1,64%), mentre stravince l’astensionismo, che unito al voto bianco o nullo nel comune di Vicenza supera il 50%.
Il voto di Vicenza chiama direttamente in causa quello che per noi è il problema principale di questo bilancio, ossia il fatto evidente che il Prc viene trascinato nel tracollo del governo e non appare una forza credibile e capace di determinare, con la propria azione, alcun reale cambiamento negli orientamenti politici dell’Unione.
Secondo il già citato articolo del manifesto, nelle provinciali Rifondazione lascia sul terreno quattro voti su dieci, passando da 110.000 a circa 60.000. Anche laddove l’Unione si è rotta e vi sono state candidature alternative, il Prc ne beneficia poco o nulla. A Taranto il rifiuto di tenere le primarie aveva portato alla divisione dell’Unione, con Prc, Pdci, sinistra democratica e Verdi prende il 37,3 per cento contro il 20,8 del candidato dell’Ulivo, a dimostrazione che se c’è una possibilità di critica da sinistra che venga considerata come praticabile, questa viene impugnata dall’elettorato. Tuttavia nonostante questo scenario favorevole, il Prc a Taranto non solo non avanza, ma addirittura arretra leggermente dai 2.738 voti del 2002 ai 2483 attuali, pari al 2,2%
Dopo la sconfitta Giordano e i dirigenti del Prc sono tornati a chiedere la cosiddetta “svolta” nel governo e il “risarcimento sociale”. Eppure dovrebbe essere facile capire che non ci sarà nessuna “svolta a sinistra” nella politica economica. Al contrario, nella stessa notte elettorale è stato non a caso firmato il contratto del pubblico impiego, nel quale il governo ha imposto il prolungamento della vigenza contrattuale da due a tre anni: un obiettivo che Confindustria persegue da diversi anni e che non erano riusciti a incassare sotto Berlusconi, trova ora un varco sotto un governo di centrosinistra…
I capi dell’Ulivo traggono da questa sconfitta la conclusione che è necessario piegarsi ancora di più alle richieste di Montezemolo. Quando parlano di “questione settentrionale” e di “ceti produttivi” intendono precisamente questo (siamo solo noi gli ultimi poveri stupidi a pensare che il “ceto produttivo” sia composto da chi passa la giornata in fabbrica, oppure alla guida di un tram o davanti al computer).
Così come su tutte le altre questioni, dalla precarietà al proibizionismo (ultima trovata, i carabinieri nelle scuole a caccia di spinelli), alla “sicurezza”, l’Ulivo continuerà a fare quello che ha fatto finora: inseguire la destra sul suo terreno, preparando così altre inevitabili (e meritate) sconfitte.
La sconfitta del Pd ha riacceso lo scontro al suo interno e indubbiamente queste difficoltà aprono, teoricamente, ulteriori spazi per le forze alla sua sinistra, come confermano anche i buoni risultati di alcune presentazioni delle liste di Sinistra democratica.
Ma l’approccio del gruppo dirigente del Prc e di Bertinotti su questo punto decisivo elude il punto fondamentale, che è quello del governo: nessuna aggregazione più o meno stretta delle forze di sinistra può invertire questo quadro se non si decide a entrare in rotta di collisione con la politica di Prodi, Fassino e Padoa Schioppa.
Il gruppo dirigente del Prc sta trasmettendo un messaggio che disarma completamente il partito: l’unica soluzione è abbracciare Mussi e compagni, per fare “massa critica”. L’idea, non espressa apertamente ma non per questo meno chiara, è che il Prc non può risalire la china di questo declino, che non è possibile costruire un partito comunista in grado di conquistare un ruolo dirigente a sinistra e in primo luogo fra i lavoratori.
Incalzare e sfidare le forze di sinistra è giusto e necessario se viene fatto sul terreno programmatico e di lotta. Un “patto d’unità d’azione” ha senso se viene chiaramente definito sul piano rivendicativo, innanzitutto sullo scontro decisivo delle prossime settimane, ossia quello delle pensioni. Un accordo fra le forze di sinistra che dichiari che si rifiuteranno di votare qualsiasi accordo sulle pensioni che non preveda l’abolizione pura e semplice dello “scalone” di Maroni (senza “scalini” e altri trucchetti come vorrebbe il ministro Damiano, e senza diminuzioni dei coefficienti) e un serio innalzamento delle pensioni, può essere capito dai lavoratori e può essere usato come leva per mettere in campo una mobilitazione che, come dimostrano gli scioperi spontanei di Mirafiori e di altre fabbriche nelle scorse settimane, potrebbe trovare un sostegno significativo.
Ma questo tipo di impostazione deve necessariamente prevedere la disponibilità ad arrivare a una rottura col governo anche in tempi brevi se questo insistesse con l’attuale linea di attacco alle pensioni. Senza questo, qualsiasi accordo fra le forze di sinistra si tradurrà inevitabilmente in una semplice copertura a sinistra del governo: sarebbe l’unità non per promuovere le mobilitazioni, ma per offrirsi reciproca copertura fra gruppi dirigenti condannando al tempo stesso la sinistra a condividere l’agonia di un governo ogni giorno più screditato.
Cosa pensino i lavoratori e i giovani di questo governo, dovrebbe essere a questo punto chiaro. Lo avevano già detto i fischi di Mirafiori a dicembre; è stato gridato nelle piazze del 4 novembre a Roma e ancora più forte e chiaro il 17 febbraio a Vicenza. Ogni militante di base che in questi mesi sia andato per le strade a distribuire un volantino firmato Rifondazione si è sentito dire da decine di persone “Non vi votiamo più!”, riferito sia al partito che all’Unione nel suo insieme. Gli stessi operai di Mirafiori lo hanno detto chiaramente a Giordano e Ferrero quando si sono presentati ai cancelli della fabbrica.
Ora oltre a essere stato detto, è stato “messo per iscritto” nelle urne. Sarebbe ora di smetterla con le acrobazie verbali e con le doppie verità e di ascoltare invece un messaggio che davvero non lascia spazio a equivoci.